domenica 4 dicembre 2011

Ginnastica artistica

Prendete il logo che rappresenta, stilizzato, un famoso ex giocatore di pallacanestro. Ora prendete un artista cinese di Photoshop, e fate fare un po’ di ginnastica a detta figurina.

Giù il braccio sinistro. No, il pallone lasciamoglielo. Sì, sempre agguantato dalla mano. Le gambe meno divaricate, meno gesto plastico. La testa un po’ ruotata. Ecco fatto. Perfetto.

Avete appena trasformato Michael Jordan (non l’atleta, ma il simbolo che gli frutta doviziose royalties sulle vendite delle scarpe Nike) in quella che dei maliziosi e sbrigativi osservatori hanno osato chiamare un’imitazione cinese.

Imitazione? Ma figuriamoci. Pura casualità. Come casuale è il fatto che l’azienda titolare di tale logo – che coincidenza – di tutti i prodotti che poteva fabbricare, proprio scarpe da basket si è messa a fare. E abbia scelto di chiamarsi così: Qiao Dan. Provate a pronunciarlo in fretta. È la quasi perfetta translitterazione cinese di Jordan.

La Nike ha già perso una causa per violazione della proprietà intellettuale – ovviamente dibattuta in Cina – contro i signori della Qiao Dan.

La piccola fabbrichetta del Fujian è cresciuta. E sta pensando di quotarsi in borsa a Shanghai, con una IPO da 112 milioni di azioni. Niente male. Ma perché a Shanghai e non nella più internazionale e generalmente appetibile piazza di Hong Kong? Perché a quanto pare agli investitori cinesi poco o nulla cale di fesserie da occidentali come il concetto di proprietà intellettuale, nel momento in cui l’azienda di cui possiedono le azioni va a gonfie vele e paga loro lauti dividendi. Pecunia non olet.

Nove ragazzini cinesi su dieci intervistati affermano di ritenere che la Qiao Dan sia l’autentica emanazione cinese della scarpa nota negli USA come Jordan.

La nuovissima economia funziona così: non si è ciò che si è, ma ciò che il mercato percepisce. E la Cina si sta avviando ad essere il mercato numero uno al mondo. Bisognerà fare i conti con le nuove regole. Nel frattempo, cari dirigenti della Qiao Dan, potete dire: mission accomplished. Copiare rende. Eccome.

4 commenti:

  1. La Nike, ma non è questa azienda che fa lavorare bambini negli sweatshops cinesi e oggi vuole delocalizzare la sua produzione in vietnam perché gli operai cinesi costano troppo, e il diritto di lavoro cinese è troppo vincolante...la causa per violazione della proprietà intellettuale persa dalla Nike, non mi fa piangere...

    Alex

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  2. Sembra che anche in questo caso la fonte del mito sia sempre l'America.
    Tesea

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  3. ciao Alex,

    nemmeno a me fa piangere. Anzi, mi fa ridere che ci siano ancora aziende che spendono fior di quattrini in avvocati, nella speranza di vincere una causa in Cina contro un'azienda locale.

    Si contano sulle dita di una mano le aziende che finora hanno vinto una tale causa. Si chiamano vittorie di Pirro.

    In quanto alla continua delocalizzazione, sono con te. Oggi va di moda il Vietnam. Perchè i vietnamiti sono buoni lavoratori, di lena, non protestano e non fanno scioperi come accade da un paio di anni nel Guangdong. E - udito con le mie orecchie - un paio di anni fa si parlava di uno stipendio base, per un operaio non qualificato all'inizio di carriera, di 300 dollari.

    All'anno. Poi fai un po' tu...

    Grazie della visita, a presto,
    HP

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  4. ciao Tesea,

    la fonte del mito è tuttora l'America, perchè è lì che i pochi cinesi approdati alla fama hanno guadagnato cifre da capogiro. Uno per tutti, Yao Ming. A Shanghai è lui il mito.

    Ma lentamente anche le marche cinesi si stanno facendo largo sul mercato. Un giorno potremmo non doverci meravigliare di trovare brand cinesi al posto dei classici nomi americani o tedeschi. Il processo è lungo, almeno finchè i cinesi non saranno capaci di importare anche i concetti di controllo qualità delle grandi multinazionali.

    Grazie della visita, a presto,
    HP

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