domenica 21 agosto 2011

Energia, o cara...

Cartelli e altro nel Giappone post Fukushima.

Engrish. L’eterno dilemma: elle o erre? Al contrario dei cinesi, i giapponesi hanno difficoltà con le elle. Eccone l’ennesimo esempio – comico, e nemmeno originale: questo qui pro quo era già uscito in una pubblicità qualche annetto fa. Non il più felice degli errori, dato che Flight (volo) diventa Fright (spavento!).

Comunicare. Fin dall’arrivo in aeroporto cominci a respirare aria di austerità. Un cartello spiega che l’aria condizionata è razionalizzata (forse volevano dire razionata, ma gli devono essere scappate alcune lettere in più), le lampadine non sono tutte accese e alcuni ascensori sono fermi. Poi, con formalismo molto nipponico, si scusa per il disagio e chiede pazienza e collaborazione. Ora, passi la pazienza. Ma la collaborazione? Ci sono alternative, piuttosto che collaborare? Qualcuno si porta una torcia da casa per supplire alla mancanza di quel neon? Uno sta fermo per protesta davanti alla porta di un ascensore disattivato, sperando che il suo gesto magicamente restituisca energia alla docile macchina? A proposito di aria condizionata. Fino al disastro di Fukushima, per strada distribuivano gratis piccoli pacchetti di fazzolettini con le pubblicità sopra. Ora l’oggetto principe per stamparci una reclame è il ventaglio. Meno condizionatori, tutti a farsi aria manualmente. Anche questo è un risparmio.

Fate i bravi, bambini. I giapponesi sono abituati ad essere trattati come tali. Anche in tempi di necessari risparmi energetici, di black-out programmati, di tensione centellinata, li trattano come alunni di scuola inferiore, a cui ricordare, con tavole sequenziali e descrittive, come comportarsi in ufficio per alleggerire la bolletta. Le sette buone azioni: uno, condizionatore a ventotto gradi (e non il solito freddo polare che fa malissimo!); due, camicia a maniche corte e niente cravatta obbligatoria, per aiutare il punto numero uno; veneziane alle finestre, per riparare dal calore del sole (aridaie col punto uno!); quattro, luci al neon che consumano meno; cinque, incredibile ma vero, fuori dall’ufficio alle cinque in punto, stare fino a sera non è più dimostrazione di attaccamento all’azienda ma egoistico consumo di luce e macchinari elettrici; sei, sfruttare l’energia solare per alimentare l’ufficio; sette, universale raccomandazione di tante madri a figli distratti, spegnete la luce quando uscite dalla stanza. Un leccalecca a chi rispetta tutti i precetti.

Wagyu beef, che salasso! Risparmiare sulla bolletta non significa che per mangiare una bistecca della pregiatissima carne marezzata delle mucche di Kobe non si debbano tuttora spendere cifre oltraggiose. Ecco un esempio. Attenzione: i prezzi non sono quelli di un ristorante alla moda, ma di un banalissimo supermarket. Tre bracioline 15.000 Yen, cinque 25.000. Cinquemila yen cadauna: al cambio 45 Euro. Una confezione – compresa una pregevole ma perfettamente inutile scatola di legno, quasi 230 Euro. Niente male per non più di un chiletto di carne. Sia pur di Kobe.

Compostezza. Questo è un corteo. Davvero. Questi signori manifestano per un Giappone con più energia pulita e meno centrali nucleari. Un ordinato gregge di pecore guidate da dei pastori-poliziotti, con tanto di auto capocolonna che dà il ritmo alla marcia e preannuncia – nell’apposita corsia, per lasciare le altre agli automobilisti – l’arrivo dei dimostranti. C’è chi si indigna. Gente che manifesta per le strade? Tra un po’ magari ci sarà chi oserà scioperare. O tempora o mores.

lunedì 15 agosto 2011

Padre Ubaldo

Sono passati esattamente quarant’anni da un giorno forse qualsiasi ma speciale. Il 15 agosto 1971 facevo – con notevole ritardo rispetto ai miei coetanei – la prima comunione. Nell’intendimento di quello spirito originale di mia madre, era giusto aspettare un po’ di più, perché i bimbetti a otto o nove anni cosa vuoi che capiscano di religione. Meglio a quindici, quando uno dovrebbe avere più consapevolezza del passo che sta intraprendendo.

La semplicissima cerimonia si svolse in una frugale chiesetta di Viareggio curata da una figura che mi fu familiare nell’infanzia. Un prete davvero singolare. Quindici anni fa gli dedicai un racconto. Inedito, lo pubblico oggi per ricordare Padre Ubaldo Maria Forconi.

Padre Ubaldo

Di te, prete viareggino, mi piacerà ricordare un episodio, sintomo certo di un modo di vivere la religiosità integrato in quelle che sono, nel bene e nel male, le tipiche abitudini dei toscani.

Eri seduto, in una calda ed umida mattinata estiva, fuori dall’uscio della pensione adiacente alla chiesetta della darsena viareggina che tu presiedevi. Il fazzoletto, pronto alla bisogna, detergeva frequentemente la fronte accaldata dal clima più che da qualche attività. Mi ero talora chiesto cosa ti avesse spinto, dall’interno della Toscana, dalle terre fiorentine da cui traevi origine, a venire a Viareggio, piuttosto che cercare il refrigerio di qualche piccola diocesi di collina, nel dolce casentino o nelle selve che salgono su verso la Romagna. Ma tant’è, lì eri, a patire il caldo marittimo.

Amavi intrattenere conversazione con chiunque, pecora appartenente o meno al tuo gregge, manifestasse l’inclinazione al colloquio. E, si sa, i toscani in generale sono estroversi e pronti allo scambio di opinioni.

In quella giunse lì, con il suo Apino ansimante e carico di derrate, l’uomo che quotidianamente recava verdure e frutta alle refezioni della zona. Non più giovane, secco ed allampanato, scaricò le cassette dovute. Poi salutò cordialmente il prete che ben conosceva. Pochi rapidi scambi di battute, su un tema che naturalmente non ricordo, ma che di certo lo accalorò, perchè, a dare più enfasi al suo discorso, ad un certo punto ci infilò una sonora bestemmia.

Ricordo bene che trasalii, attendendo una qualche reazione - non sapevo immaginare quale - del religioso. Accadde allora qualcosa di trascendentale, per chi toscano non è.

Padre Ubaldo, ti rivedo ancora come se fosse ieri, e sono passati circa venticinque anni da allora: ti battesti una gran manata su una coscia, con l’altra reiterasti il gesto di asciugarti la fronte sudata e, la testa reclinata indietro, scoppiasti in una gran risata. Poi ti volgesti verso di me, leggendo lo sconcerto nel mio viso, e mi dicesti: Senti lì, ci ha anche schiacciato un bel moccolo! (A sottolineare la forza icastica della frase, giova precisare che moccolo in toscano è sinonimo di bestemmia e che quindi schiacciare un moccolo, nel vivace vernacolo locale, equivale a bestemmiare).

Mi insegnasti, con quella piccola lezione, a saper perdonare e perfino ridere dei peccatucci che, diversi a seconda delle zone, sono talmente radicati che divengono abitudini, al punto da poterli considerare - perfino per un prete - veniali o addirittura neppure tali, mentre altri sono i valori da tenere da conto nel contatto col prossimo, come la voglia di comunicare, di capire, quando necessario di aiutare.

Padre Ubaldo, ora non ci sei più. Un piazzale, quello antistante lo stadio comunale di Viareggio, porta il tuo nome, a commemorare una lunga e valida catechesi nella zona. Di te, oltre alla dedica sul Vangelo che mi donasti quando feci la prima comunione, un giorno di agosto di tanti anni fa, e tu ne fosti l’officiante, porto con me il ricordo di quel piccolo ma grande insegnamento, esempio di tolleranza, di comprensione e di una mentalità vicina alle persone che costituivano il tuo gregge pastorale, sempre scevra da atteggiamenti alteri o presuntuosi, pronta al conforto più che al rimprovero.

Grazie, Padre Ubaldo.


Prima redazione : luglio 1996

domenica 14 agosto 2011

Nizza è... - 3a parte

Siamo all'epilogo della trilogia.

Vivibile (e tecnologica!). Con tante biciclette a disposizione di cittadini e turisti. Per una modica mercede potete girare per la città senza inquinare e senza scarpinare. E poi diciamocelo: avevate mai visto una bicicletta con la trasmissione cardanica? Donne: niente più catena in cui andare a far impigliare le gonne. Da degli italiani convinti che la patria della meccanica fine sia il bel paese: chapeau!

Disperata. C’è chi dorme, nel tardo pomeriggio, nascosto da un plaid al mondo indifferente, proprio a due passi da Place Massena. Attorno bambini giocano, coppie passeggiano, ragazzi palleggiano con maestria. Tutto il mondo è paese.

Artistica. MAMAC. Una visita – bella sorpresa – gratuita. Basta qualificarsi come italiani. Molti non sanno che non si paga. Meglio così. Le opere – nemmeno cintate – ringraziano.

Bellissima. Architetture raffinate. Ed una Cattedrale Russa da non perdere.

Buonissima. Punto. Servono davvero le parole?

sabato 13 agosto 2011

Nizza è... - 2a parte

Prosegue da qui.

Quasi italiana. Con sapori, profumi, colori che ci fanno sentire a casa. Sarà per questo che c’è uno scandaloso numero di italiani qui. Sempre. Turisti come formiche che tutto invadono con i loro cicalecci di suono piemontese, lombardo, perfino qualche scivolata verso l’acciaccato accento romanesco. Te dico credime!

Multietnica. Per noi, abituati a considerare il massimo dell’eccentricità la nuova moda dei ristoranti giapponesi (al 99% gestiti da cinesi), vedere un ristorante afgano o quello tunisino Cartagine (l’ultima volta che ne avevamo sentito parlare risale ai tempi della scuola dell’obbligo) suscita sorpresa quando non sbigottita ammirazione. Ma non ho visto molti turisti avventurarsi in cotanto cimento. Meglio la pizzeria all’angolo, o al massimo il chiosco della socca, versione nizzarda della nostra farinata (cecina o torta per i corregionali di Dante).

Quasi italiana 2. Sfido chiunque che non sia stato a Nizza a riconoscere al volo che siamo in Francia e non in qualche posto litoraneo della costa tirrenica, da Ventimiglia fino ad Amalfi per esempio.

Verde. Al punto che persino tra i binari del tram, invece delle solite orrende massicciate pietrose o del dozzinale cemento, hanno fatto crescere un bel pratino allegro. Bella idea. Italiani: copiare costa troppo?

Colorata. Come la via tappezzata di quadri allucinati, o la parete di un negozio di scarpe di provenienza brasiliana, con tanto di storia commovente scritta fuori.


Domani terza e ultima parte. Più scatti e meno parole.

venerdì 12 agosto 2011

Nizza è... - 1a parte

Dedicato all’amico Dragor, che mi ha chiesto di raccontarne, segno evidente di una comprensibile nostalgia. Non scrivo su commissione, ma questa volta è diverso. Dragor, questo è per il regalo che non ti ho potuto dare, perché sei partito per l’Africa pochi giorni prima che io fossi lì, nella tua città. Da leggere ascoltando mentalmente le sole note della bellissima Napule è, di Pino Daniele.

Nizza è...

In Francia. Sembra banale, ma agli occhi di un italiano fa effetto tutto questo spiegamento di sentimenti nazionalistici. Sette bandiere, mica una. Un orgoglio che a noi manca.

Francese. Uno scatto così in Italia susciterebbe anatemi. Ristorante del Gesù? Vade retro Satana. Scherza coi fanti e lascia stare i santi. Invece qui è normale che il ristorante dirimpettaio della bellissima chiesa del Gesù si chiami come il suo artistico vicino di casa.

Pulita. Non solo ci sono cartelli ovunque ammonenti i proprietari di cani che parchi e giardini son lì per il piacere di tutti, e non per collezionare cacche canine. C’è un’attenzione quasi maniacale anche per i dettagli. Spolverare le bocce dei lampioni, una ad una, con cura. Alzi la mano l’italiano che ha visto fare ciò nella sua città. Sarò lieto di congratularmi con la sua amministrazione comunale.

Una vecchia signora. Bella anche con qualche ruga evidente. Il fascino non ha età.

Felicità. Di poter sguazzare allegramente in una fontana di Place Massena, alla ricerca di qualche tesoro da riportare al padrone.


Continua domani, con altre fotostorie.

domenica 7 agosto 2011

Hop on

Dai, salta su. È un invito a farlo, quel cartello verde. Nulla da perdere, nemmeno quei quattro spiccioli che costava il biglietto. Stamani, passando davanti a una fermata del bus urbano di Cuneo mi è venuta la voglia di prenderlo. Giusto per sperimentare, mica per un attacco acuto di pigrizia.

Free bus. Un’altra iniziativa eccentrica. In tempi calamitosi in cui l’amministrazione capitolina ha annunciato l’innalzamento del costo della corsa da un euro a uno e cinquanta (con un bell’incremento percentuale, sia pur farisaicamente compensato da una validità oraria maggiore), il capoluogo della Granda si deve distinguere sempre per originalità e controtendenza. Autobus gratis per tutti, nella tratta centrale di Via Roma, Corso Nizza, Corso Giolitti, fino alla stazione. Oddio, Cuneo non è New York, e questo percorso si fa a piedi in venti minuti.

Però purtroppo c’è sempre chi – anche per duecento metri, le classicissime sigarette – prende la macchina. E ci mette magari lo stesso tempo, perché in seconda fila, come invece è d’uso a Torino e Milano, non si può parcheggiare, essendo le strade troppo strette. Per cui tre o quattro giri di isolato sono garantiti, prima di trovare un buco. Benzina sprecata, inquinamento che cresce, mentre nervosismo e pancia certo non vanno giù.

Ma per chi due passi a piedi non vuole – o non può – farli, oggi c’è il bus urbano gratis. Sali senza doverti preoccupare di bollare – e prima di questo trovare un negozio che venda – il biglietto. Oplà. Ho fatto quattro fermate insieme con un divertito signore d’età, che è salito e poi sceso con me. Sabato mattina d’agosto, un autobus tutto per noi. Alla fine ci siamo salutati come vecchi conoscenti.

Dicono le recenti statistiche che il servizio è stato ben accolto dai cittadini, con punte di quasi duemila persone al giorno, appena prima dell’arrivo delle ferie d’agosto. Per i tratti fuori dalla zona libera si paga ancora la corsa. Ma chi si deve spostare in quel paio di chilometri di città ha un’alternativa alla macchina davvero imbattibile.

Sempre nello spirito di cercare di migliorare un livello di vivibilità già ben superiore alla media nazionale, una piccola osservazione: qualche cartello in più, dei manifesti di dimensione adeguata nei negozi e non i modesti volantini che ho notato solo in un paio di esercizi, e – volendo esagerare – perfino due righe in francese e inglese, aiuterebbero cittadini e turisti a conoscere ed apprezzare un’esemplare iniziativa mirata a rendere ancora più godibile questa cittadina ai confini - non solo geografici - dell’Italia.

Comunque siamo contenti: grazie all’amministrazione ed al sindaco Valmaggia. Anche chi non sa andare in bicicletta da oggi può spostarsi per Cuneo inquinando di meno. E scusate se è poco.

sabato 6 agosto 2011

Hiroshima: mon amour?

Scritto quattro anni fa. Attuale come se fosse oggi. Domandamoci: è cambiato qualcosa da allora? No. O forse sì: ma in peggio.

I morti insegnano ma i vivi non imparano

Siamo in tempo – ahimè – di commemorazioni. La strage di Bologna è stata appena ricordata da bloggers i più vari e da stanche cerimonie presiedute da autorità spossate dal caldo e dall’interruzione delle meritate vacanze.

Oggi è un altro giorno della memoria, per gente molto lontana da noi. Ma non per questo trascurabile.

La più colossale singola strage di civili al mondo è accaduta esattamente 62 anni fa. In Giappone. Per dare un’idea, i nostri 85 morti di Bologna vanno moltiplicati per mille, per enumerare quelli che si sono liquefatti, polverizzati, annullati, nel lampo di un secondo, ad Hiroshima.

Quella città è diventata antonomastica di tragedia nucleare. Di certo i giapponesi hanno fatto le loro, durante la seconda guerra, e prima ancora, in Asia. Non si sono fatti amare, non c’è dubbio. Ma le stragi, di Hiroshima prima e di Nagasaki tre giorni dopo, hanno segnato un cambiamento irreversibile nella maniera di combattere una guerra. E di terrorizzare il mondo.

Giova ricordare episodi del genere. Casomai qualcuno pensasse che con il nucleare si può scherzare.

I morti di Hiroshima sono stati quelli fortunati. C’è chi ha patito per mesi, o per anni, o per tutta la vita, le conseguenze mostruose e deformanti della prima bomba H sganciata su una città, su dei civili, sugli uomini, le donne, i vecchi e i bambini che quotidianamente cercavano solo di sopravvivere in una nazione in guerra.

Ci sono state altre stragi da allora. Genocidi addirittura. La Cambogia di Pol Pot. Il genocidio Rwandese. Il Kosovo. L’undici settembre. L’Iraq e la sua guerra insensata con tutti ad aggiornare la quotidiana contabilità dei morti americani, e nessuno a contare le decine di migliaia di irakeni che la promessa democrazia non la vedranno mai.

Ma Hiroshima ha segnato una pietra miliare. I giapponesi sono stati gli unici ad avere il non invidiabile privilegio di vedersi piovere dal cielo un fungo atomico. A mostrare al mondo intero gli effetti raccapriccianti di un singolo gesto, quello di aprire il portello dell’aereo che ha sganciato il ragazzino (Little Boy, così era stata, con tragica ironia, chiamata la bomba) su una città. Che è stata rasa al suolo da un vento infuocato. La più alta mortale efficienza belligerante mai ottenuta dall’uomo.

Non ci sono purtroppo difese contro la follia umana. Questo scritto non servirà a proteggerci dal rischio che qualche fanatico decida di prendere a colpi di spingarda nucleare qualcun altro che gli sta sugli zebedei. Ma per lo meno servirà a ricordare di che nefandezze sia stato – e sia tuttora – capace l’uomo. I morti insegnano ma i vivi non imparano.


Prima pubblicazione : 6 agosto 2007

giovedì 4 agosto 2011

Il paese dei balocchi - 3a parte

Ultima parte della trilogia A spasso per Akihabara.

Un gatto in maschera

Vedo un capannello via via crescente di persone con telefonino sfoderato, che fotografano a tutto spiano qualcosa. Sembrano i piccioni quando uno gli dà il granturco. Più ne tiri e più arrivano volatili da tutte le parti. Cerco di farmi largo tra la folla per capire quale sia l’oggetto di tanta attenzione. Un fantoccio felinomorfo di dimensione umana. Forse un locale corrispondente del nostro gabibbo? Fatto sta che la gente non si accontenta di fotografare il gatto. Si fa fotografare CON il gatto. Cosa spinga degli adulti, magari padri di famiglia, a porsi accanto ad un pupazzo dagli occhioni stralunati e dalla boccuccia vezzosa, per ottenere un ritratto da in seguito esibire al parentado o in ufficio, va oltre la mia capacità di comprensione. Assolutamente inspiegabile poi che qualcuno arrivi addirittura ad indossare una maschera con le sembianze di detto felino. O forse no. Ad occhi celati, possono sempre negare: quello? No no, non ero mica io.


Ipocrisie

Parlare di Sex shop (come si chiamano in tutto il mondo, tranne in Italia, dove si dice Sexy Shop, il che suscità l’ilarità di ogni straniero perchè equivale a Negozio Attraente) è troppo diretto per il carattere riservato, introverso, mai spigliato dei giapponesi. Allora come lo chiamiamo questo benedetto posto di perdizione?, si saranno interrogati i padroni del locale. Un’idea di quali commerci avvengano qui dentro bisogna pur darla. Trovato!! I nostri connazionali non vanno letteralmente pazzi per le giostre? Chiamiamolo parco di divertimenti per adulti. Che geni.


Women only

Dopo un pomeriggio domenicale immerso nella bolgia di Akihabara, è piacevole tornare in albergo usando una metropolitana semideserta. Le ultime carrozze del convoglio sono quelle rosa. Nel senso che, nelle ore di punta dei giorni lavorativi, sono riservate esclusivamente alle donne. Niente maschiacci ben predisposti alla mattutina palpata, favorita dalla ressa e dalla promiscuità. Le donne possono viaggiare in tutta serenità, certe di non trovare il solito porco dalla mano morta. Un bel segno di civiltà. Se non si riescono ad estirpare le cattive usanze, almeno si cerca ad prevenirle, per quanto possibile. Le donne di Tokyo ringraziano.

mercoledì 3 agosto 2011

Il paese dei balocchi - 2a parte

Segue da ieri...

Bambole dal vivo

Visto il successo di queste fanciulle en-travesti, quale miglior mezzo pubblicitario che metterne qualcuna in carne ed ossa a distribuire volantini di karaoke, sale giochi e altri luoghi di divertimento e amenità? Non si fanno fotografare volentieri, forse per ritrosia o forse conscie dell’esistenza di altre attività che mettano meno alla prova la loro dignità. Ho chiesto il permesso di ritrarle a un paio di esse, ma hanno agitato la mano a palmo aperto, cortese segno di diniego in Asia. Però erano troppo spettacolari per non provarci di sottecchi. Le immagini non sono un gran che, ma rendono l’idea. Totalmente involontaria l’ironia dell’accostamento tra la mise della fanciulla vestita di pizzi e merletti e il negozio in sottofondo (che come è noto si occupa di videogiochi e non di attività autoerotiche).
























Cars a Tokyo (o meglio, Bikes)

Sempre per stare nelle citazioni filmiche. Ho visto i perfetti corrispondenti motociclistici delle quattro macchine tipo dragsters di Cars (il primo) che di notte imperversano in autostrada, finchè incontrano Mack e lo prendono di mira, facendolo addormentare.

Moto dalle verniciature psichedeliche, con file di lucine multicolori a scorrimento, fari che paion gli occhi di Caron Dimonio, ruote posteriori larghe come quelle di una Formula Uno, impianto stereo degno di una discoteca, ovviamente a palla, ma che emana metà dei decibel delle marmitte. Mostri travestiti da due ruote. Nota di colore: fa particolarmente figo guidarle senza occhiali e col la visiera del casco sollevata. Dieci punti in più nella scala figaggine se si ha il casco coordinato alla livrea della moto. Venti, con una sigaretta accesa in bocca.


Continua domani, con altre stramberie nipponiche.

martedì 2 agosto 2011

Il paese dei balocchi - 1a parte

Boys and their toys.

Dice la battuta: la differenza tra uomini e bambini è il prezzo dei loro giocattoli. Verissimo.

Akihabara è il paese dei balocchi di Tokyo. Ufficialmente si definisce la città dell’elettronica, con grandi magazzini multipiano strabuzzanti tutte le ultime novità tecnologiche. In realtà il quartiere si sta trasformando, per occuparsi di una fascia ancora più ampia di clientela. E così, tra sale giochi estese come dei bazar e negozi di elettronica che ti permettono di vedere nel futuro, sapendo già quelle che fra tre anni da noi saranno chiamate le novità del settore, sono sorti nuovi centri commerciali di nicchia. E la nicchia – facilmente intuibile – è il sesso e le sue variazioni sul tema.

Liceali forever

È notoria la passione dei giapponesi per i travestimenti (sebbene anche in Italia di recente si sia rivalorizzata, ed ai massimi livelli, questa peculiare interpretazione del gioco erotico), unita ad una fissazione quasi morbosa per la giovane età. Che sudata, è difficile parlare di certi argomenti senza scadere nella volgarità! Andiamo avanti. Piantato proprio in mezzo alle costruzioni che ospitano televisori delle prossime quattro generazioni, macchine fotografiche a cinque zeri, videocamere tridimensionali (in uno slancio di onanismo televisivo mi sono tolto il gusto di rimirarmi in una tivu, nello splendore non dei settanta millimetri ma di tutte le mie dimensioni, con gli occhialetti del caso, ripreso da una intimidatoria – per l’aspetto e per il prezzo – apparecchiatura in tre-dì con due obiettivi che ti guardano come occhi strabici), ecco un emporio che non ti aspetti.

Otto piani, non di morbidezza, ma di abbigliamento per trasformare qualsiasi donna in una studentessa liceale. Uniformi a perdita d’occhio, già cominciando dalle vetrine. Figuriamoci dentro. Ed un volgare motto edonistico che dice, ricco è bello: no goods, no life. Alla faccia dei poveracci che non si possono permettere di vestire la propria amante come una scolaretta. Del resto, se sono poveracci, non si possono permettere neppure l’amante. Che costa come una Ferrari, ma consuma molto di più. Problema risolto.

Fanciulle, volete portarvi a casa un ricordo di come apparireste vestite da geisha piuttosto che da scolara (o forse cameriera) sexy? Facile. Basta mettersi dietro al simulacro con il buco per la faccia. Con tanto di fumetto con la scritta, udite udite, in ITALIANO! Ti voglio tanto. Più chiaro di così. Secondo me l’italiano, e non il francese, deve essere la lingua del peccato per i giapponesi. Tipo la scena di Un pesce di nome Wanda, dove John Cleese parla in russo a Jamie Lee Curtis, e lei si rotola per terra dalla smania, ma al contrario. Sentirsi mormorare frasi sensuali nella lingua di Dante da una trentenne travestita da collegiale sedicenne deve farli arrapare come dei babbuini. Non c’è altra spiegazione.


Il bizzarro diario di Akihabara continua domani... qui.