martedì 31 maggio 2011

HB, HP!

Quattro anni di racconti. Ognuno conosce, meglio di chiunque altro, i propri difetti. E – nota la mia incostanza – proprio non avrei creduto di riuscire a continuare quest’avventura per ben 1461 giorni, senza stancarmi, senza perdere il sale della vita, le motivazioni, senza salutare tutti e chiudere questo modesto contenitore d’idee, come ho visto nel frattempo fare a vari amici conosciuti nell’etere e da qui ormai scomparsi.

Invece, a dispetto della diaspora da La Stampa, Homing Pigeon ha continuato a raccontare, ritagliandosi un piccolo nuovo spazio senza glorie da home page, senza competizioni, senza lettori facili affluenti dalla grande testata. Ecco con cosa è rimasto: pochi ma buoni.

Il mio racconto di oggi vuole essere un ringraziamento a chi non mi ha dimenticato. A quegli sporadici, fedeli lettori che mi seguono, continuando a sprecare il loro tempo con me: Alex, amico francese che ha aperto un blog da leggere e gustare. Tesea, che mi ha sempre fatto sentire la sua presenza con frequenti parole buone ed ha il pregio raro di andare a spulciare tra le vecchie storie. Dragor, l’iniziale ragione del mio essere qui, l’unico blogger al quale scrissi quando ancora non sapevo che sarei stato preso dal morbo, il primo a commentarmi e incoraggiarmi. E poi voglio ancora ricordare Pim, Irene, Luigi, Elena, Pat. Amici d’avventura, che ogni tanto ritrovo con gioia nella mia piazzetta virtuale. So che ci siete. Tutti. Grazie.

HB, HP! Ossia: happy birthday, Homing Pigeon.

sabato 28 maggio 2011

Worthy reasons

I once wanted to become an atheist but I gave up. They have no holidays.


Una volta volevo diventare ateo, ma ci ho rinunciato. Non hanno nessuna vacanza.



Henny Youngman [1906 – 1998]

venerdì 27 maggio 2011

Botteghe oscure

Domenica a Manila. Caldo torrido. Nemmeno equatoriale va bene per descriverlo, perché di solito all’equatore c’è un’umidità insopportabile, mentre invece qui spira un vento caldo e secco che sembra di passare sotto un fon acceso. Tuttavia non basta a spazzare l’inquinamento orrendo che esalano milioni di autobus fumosi, di jeepneys catarrose, di camion arrembanti e cancerogeni.

Così non resta che l’artificiale refrigerio di un centro commerciale dalla perenne e malsana aria condizionata. Manila. L’unica città dove ho visto vere folle di sfaccendati fare la coda la mattina presto davanti ai varchi dei megamall, con il solo scopo di trascorrere qualche ora nel sollazzevole e gratuito fresco offerto dalle potenti ed esose centrali di condizionamento installate sui lastrici solari di bottegoni sterminati.

Ma il giretto domenicale non è tempo sprecato. Mai vista una tale concentrazione di insegne spassose. Tanto da invogliarmi a documentarle, suscitando sguardi sbigottiti negli astanti, ma guarda un po’ quel tipo, che gusto ci troverà a fotografare i negozi, mah, sono proprio bizzarri questi stranieri...

Cominciamo la carrellata con dei classici: i ristoranti italiani, errori compresi.

Italianni’s? Facciamo una colletta. Regaliamogli un dizionario.

Piazza Pazzo. E pensare che sembravano tutti normali, gli avventori. Proprietario (o creativo coniatore del nome): giustificatevi. Avrete fatto la fatica di sceglierlo, questo nome. Come ci siete arrivati?

Pizzeria ä Veneto. Talmente italiana da usare una lettera che non esiste neppure nella nostra lingua. Ma il capolavoro è sotto: va bene che serviate pizza e pasta. Gli eroi (heros) che piatto sono?

Evita Peroni. Senza parole. Voglio sperare che esista una signora con tale nome, proprietaria della catena di negozi di bigiotteria, che vanta sedi a Parigi, New York e Tokyo. Perché se no è oltraggio alla memoria dell’icona femminile d’Argentina, confusa con una birretta dal suono italico.

Mr Quickie. Non sarò originale, né il primo ad aver sogghignato per tale disgraziato nome, affibbiato ad una modesta bottega per la rapida risolatura di scarpe. Spero che il volgare doppio senso vi abbia almeno giovato negli affari: perché Mr Quickie suona come il Signor Sveltina. Non proprio lusinghiero, in una terra orientale dalla cultura profondamente machista.

JiPan. Gustoso calembour. Una panetteria giapponese a Manila. La lingua tagalog è infarcita di lemmi spagnoli, dopo vari secoli di dominazione ispanica. Pan è il pane. Se è giapponese (credevate che mangiassero solo riso, vero?), ecco Ji-pan.

Di colonialismo in colonialismo. Dopo gli spagnoli, sono arrivati i giapponesi. E poi i liberatori americani. Ora si tifa per l’NBA, si mangia nei fast food, la lingua si è ulteriormente imbastardita con nuove parole inglesi. Il dentifricio in tagalog si dice colgate. Marchio trasformato in nome comune. Potenza delle multinazionali. Ma gustiamoci questo arguto oste cinese, che ha chiamato il suo ristorante come l’ambito trofeo del football americano. Super bowl – of China. La super zuppiera. Geniale.

Prima pubblicazione : 21 aprile 2010

mercoledì 25 maggio 2011

Barriere architettoniche

Ci vuol altro per fermare un cinese. Occorre salire di un piano, non c’è manco un ascensore (forse sarebbe meglio un montacarichi, ma a Shanghai sai quante biciclette ho visto portar su negli ascensori di casa, che di catenacci e lucchetti non si fida più nessuno), le uniche alternative sono una ripida gradinata o una scala mobile. Dubbi? Nemmeno mezzo. Il nostro fattorino, con tanto di bici motorizzata stile vecchio solex, prende la via meno faticosa. E che importa se ci sono dei cartelli che invitano alla prudenza, a non portare carichi pericolosi, a reggersi al mancorrente?


Parco in pieno centro, domenica solatia e calda che invita al passeggio. Un bimbetto agghindato all’americana (cappellino da baseball girato all’indietro, jeans e scarpe di tendenza 012) scorrazza allegramente sul manto erboso. Qualche anno fa non sarebbe successo nulla. Oggi arriva una poliziotta con coda di cavallo e brache militaresche, fischia all’indirizzo del marmocchio e senza cerimonie lo richiama ad uscire dal prato. Dove non bastano le modeste barriere architettoniche che limitano le aiuole, ci pensa questa solerte guardia. Pallidi segnali di civiltà in una Cina meno rossa e più verde.


Un giorno passo in taxi da uno degli immensi, deserti, inutili vialoni dei quartieri ancora da finire che sorgono senza requie nella parte nuova di Shanghai, Pudong. Vedo una cosa strana, che merita un supplemento d’indagine. Una linea tranviaria corre in mezzo alla carreggiata. Ma con un binario solo per lato. Risparmi di risorse? I cinesi, famosi funamboli, si cimentano nella difficile arte di mantenere in equilibrio per strada un tram monorotaia?

Ci ritorno, a piedi, di domenica pomeriggio, quando il traffico è inesistente ed è più facile incontrare un espatriato residente lì piuttosto che un cinese. Aspetto pochi minuti, in una fermata tecnologica al punto da dirti quanto manca all’arrivo del prossimo convoglio. Ed ecco sopraggiungere un moderno e silenziosissimo tram che corre su pneumatici, ed usa il binario centrale solo per prender corrente – e non farsi guidare fuori traiettoria. Il conducente mi sorride, dissimulato da dei vetri quasi totalmente specchiati. Apre le porte per pura abitudine, non c’è nessuno che salga o scenda. Solo questo buffo laowai che fotografa i tram semivuoti. Mah. Il tempo di uno scatto e subito riparte, mai dovesse arrivare in ritardo al capolinea. Cinesi come i giapponesi? Tempi che cambiano, anche qui. T.I.C.

giovedì 19 maggio 2011

Misunderstandings


Jodie : There you go! That’s the guy who suggested the movie title!

Mel : Fair dinkum?! You bloody bastard! If I get ya I’m gonna kick your ass! Should have bloody told me that it was meant to be a stuffed toy!!

Bloody terrific

Uluru, nella lingua degli aborigeni, è il nome di un enorme monolito rosso che si trova nel centro geografico dell’Australia. Ed attorno a questa colossale pietra che sorge solitaria nel deserto è stata costruita una specie di industria del turismo. Non c’è neppure un paese qui, solo una serie di alberghi che attirano come mosche frotte di turisti, soprattutto giapponesi.

Mosche. A proposito. Una presenza costante, un tormento continuo. Mai fare l’errore di mettersi profumo o dopobarba. Ti svolazzano in faccia, negli orecchi, sul collo. Al punto da trasformare i camminatori che percorrono gli otto chilometri del perimetro dell’Uluru in specie di apicoltori, il viso riparato da veletti che si suppone facciano parte del business locale. Una passeggiata sorprendente, una vista mozzafiato su vertiginosi muri verticali di pietra rossa.

L’incontro del giorno è con Les, australiano di Sydney, attivo e allegro come un ragazzino nonostante i suoi 74 anni. Percorriamo insieme il tracciato, dopo esserci incontrati sul pulmino che porta fin qui dagli alberghi. Un by-pass coronarico alle spalle, non ha paura né del caldo orrendo né delle mosche. Si arma di un fuscello fronzuto che strappa dagli arbusti, e per tutto il tempo si percuote con regolarità il collo e le spalle per cacciare i fastidiosi insetti.

E non smette mai di parlare, colorando i discorsi con vivaci espressioni tipicamente australiane. Mi chiama Fernando dieci volte al minuto, facendomi notare quanto siano “bloody terrific” - qualcosa come “maledettamente grandiosi” - certi scorci di questo luogo. E poi si fa fare delle fotografie, per portarsi a casa il ricordo di questo viaggio. Nei posti dove è consentito, perché alcuni, secondo le credenze - o la religione - degli Anangu, gli aborigeni Mala padroni naturali della roccia, sono luoghi sacri di culto, e non è permesso né fotografarli né accedervi.

Una piacevole passeggiata attorno ad un luogo di grande suggestività, arricchita dalla presenza di questo gioviale nonnetto, che saluta come se si conoscessero da sempre un paio di aborigeni che incrociamo, e trova una parola per qualsiasi persona con cui entra in contatto. Voglia di fare, voglia di vivere. Lezioni di vita. A poco prezzo. I quindici dollari dell’ingresso al parco - parco? - che vanno al fondo per il sostentamento degli aborigeni. Non è molto, in cambio di un incontro che ti mostra quanto sia importante godere appieno della vita. Ogni giorno. Diem carpere, e di sicuro senza avere letto Orazio.

martedì 17 maggio 2011

Segnali di civiltà 2

Civiltà: noi siamo purtroppo ben lontani da questo impegnativo concetto. Vicini, adiacenti, devoti a tale credo, sono invece gli australiani. Spesso il rispetto delle altre creature si dimostra nei piccoli gesti. Ma di significato straordinario. Come il cartello fotografato al volo in un sobborgo di Sydney.

Ogni tanto qualche paperotto di nidiata, percorrendo accodato a mamma anatra un viale che divide due parchi, veniva investito da una macchina. Allora hanno messo un segnale stradale, forse unico nel suo genere. Attraversamento papere.

Mi piace pensare che la gente rallenti quando lo vede. Solo in Australia.

domenica 15 maggio 2011

Titanico

Monumento simbolo della pazienza umana, la Grande Muraglia scorre come un infinito serpente sui rilievi collinosi, quando non montagnosi, della Cina settentrionale. Una visita d’obbligo per qualsiasi turista, al punto che troppa gente affolla i suoi saliscendi, le sue ripide scalinate lapidee, i suoi camminamenti larghi e purtroppo abitati da mercanti improvvisati di tutto l’orrido repertorio di oggettistica da ricordo.

Mai in Cina si ha una sensazione di privacy, di intimità. Men che meno in questo luogo storico, forse una volta glorioso, oramai vetrina di inutili esibizionismi. Gente dappertutto, in un miscuglio di sudore, fatica e paura. Gente che sale, arrancando, dei gradini di altezza irregolare come l’andamento della collina. Passi incerti, un ritmo spezzato da una salita scomoda, unico ausilio un mancorrente purtroppo ad altezza cinese. La stessa gente che poi scenderà, talora con scarpine impensabilmente inadatte, le pietre levigate da milioni di passi, reggendosi a due mani alla salvifica sbarra.

Una transumanza nei due sensi, si sale e si scende tenendo la destra, ognuno segue questa regola non scritta, chissà chi è il primo che lo ha stabilito? Tutti fotografano tutti, in una sagra dello scatto continuo. Non c’è un posto dove non ci sia folla, e nessuno pare curarsene. Ci si ferma, ci si irrigidisce in posa, sorriso finto stampato sulle labbra, l’importante è potere dire c’ero anch’io. In quante foto sarò comparso, involontario invasore di quadretti familiari altrui?

Alle mie spalle due coreane belle ed inutilmente eleganti si fotografano a vicenda, indifferenti alla mia presenza sul bordo del bastione dove cerco di cogliere qualcosa dell’essenza di questo luogo. Mi offro di ritrarle insieme, magari così se ne vanno e la smettono di cicalecciarmi nell’orecchio. Naturalmente subito non capiscono, e mi rispondono che sono sorelle. Coreane. Che altro potevo aspettarmi? Poi s’illuminano, mi porgono la macchina a due mani, esibiscono le loro file di denti all’obiettivo. Alfine se ne vanno, non senza essersi profuse in inchini e ringraziamenti cerimoniosi.

Osservo questo enorme nastro di pietra che si srotola sulla terra color ocra. Titanico. Seppure né alto, né possente. Ma esteso per cinquemila chilometri. Duemila anni per costruirlo. L’unico manufatto umano – dicono – visibile dalla Luna. Mi interrogo, senza trovare risposte: perché proprio qui, su questa collina, e non su un’altra qualsiasi delle mille uguali che ci circondano? Dov’è il criterio, chi ha deciso per primo che questo monte doveva stare di qua, e quello di là? Senza vedute aeree, senza mappe. E quanti uomini ci saranno voluti per presidiarla, ammesso che fosse possibile farlo su tutta la sua sterminata lunghezza?

Mi guardo intorno, e trovo la risposta nella folla. Capisco. Solo in Cina poteva nascere un progetto di questo respiro. Una civiltà antichissima. Cultura, genio, ambizione. E manodopera a iosa. Avevano tutti gli elementi per realizzarlo. Lo hanno fatto. È ancora qui. Per noi, e chissà per quante generazioni a venire. La stessa sensazione che si può provare davanti alle piramidi, o alla Pietà di Michelangelo. Gli uomini passano. Le prove del loro genio restano. E insegnano, silenziose.

Prima pubblicazione : 17 agosto 2007

venerdì 13 maggio 2011

Per la precisione...

Fatti bizzarri da cui trarre spunto se ne vedono sempre, in giro per il mondo. Mai avrei immaginato, però, di trovarmi a scrivere di uno dei più umili e peraltro necessari prodotti di cui si fa uso universale e quotidiano. La carta igienica. Ma le informazioni indicate sulla confezione, singola, del rotolo di scorta in un albergo australiano sono veramente degne di menzione. Per la loro minuziosa, quasi paranoica, precisione.

Kimsoft, un prodotto Kleenex. 4750, codice registrato. Tutto bene, siamo nella norma. Made in Australia. Uno strato. Colore bianco. Ancora accettabile. 850 fogli. Ci sarà mai qualcuno che si mette a contarli? 11 cm x 10 cm (sic!). A questo punto mi interrogo. Esiste uno standard? Attraverso quale processo si è arrivati al dato fatidico? Immagino un gruppo di lavoro, in una sala riunioni, che discute con toni accesi, facciamola così, no, è troppo piccola, ma no, il collaudatore ha detto che il formato è sufficiente. Interviene uno, proietta un grafico dal titolo eloquente: misure dei culi australiani. Gli astanti annuiscono soddisfatti, il direttore fa, signorina, scriva: si approva la dimensione 11×10.

Ai meticolosi australiani che hanno partorito questo miracolo di scrupolosità verso il consumatore ho una gran voglia di chiedere ancora una cosa: in un paese attento come pochi al rispetto della natura, perché manca l’indicazione più importante, ossia se è fatta di carta riciclata? Sarà mica che per evitare irritazioni a fondoschiena delicati – e temibili chiamate in giudizio per danni, visto che il livello di litigiosità locale si sta apparentando ai pur sempre inarrivabili Stati Uniti, dove da una parola in su si va dagli avvocati – le cartiere sfoltiscono foreste e boschi per farci pulire il sedere con carta extravergine??

Prima pubblicazione : 28 agosto 2007

mercoledì 11 maggio 2011

L’elicottero della natura

Punta del Este, Uruguay. Un fulmineo frullio d’ali, ed un oggetto improvvisamente immobile davanti ad un fiore. Così si presenta, davanti ad un cespuglio macchiato di fiori arancioni, una delle piccole meraviglie della natura: un colibrì. Tanto maggiore la sorpresa, lo stupore, nel trovarlo in un giardino qualsiasi, libero e normale come da noi potrebbe svolazzare un passerotto. Piccolo, piccolissimo, si fa fatica a crederlo un uccello. Pare un grosso insetto colorato. Ed invece, con quella grazia nervosa che lo contraddistingue, passa instancabile da un fiore ad un altro, suggendo polline col becco affilato e curvo come una lama di sciabola. Non mi sembra vero. Non vola, non come siamo abituati a vedere gli altri uccelli, perlomeno. Il suo muoversi è fatto di salti, evoluzioni, manovre incredibili. Una macchina che sa stare ferma per aria e volare all’indietro, con quelle ali che nessun occhio umano riesce a vedere, tanto frenetico è il loro ritmo, tanto elevata è la frequenza del loro sbattere. Un miracolo della natura. Minuscolo e apparentemente fragile come una miniatura di Capodimonte, ma agile e ratto al punto da sembrare inafferrabile.


martedì 10 maggio 2011

Diete

I went on a diet, swore off drinking and heavy eating, and in fourteen days I had lost exactly two weeks.

Mi sono messo a dieta, ho giurato di rinunciare al bere e alle mangiate, e in quattordici giorni ho perso esattamente due settimane.

Joe E. Lewis [1902 – 1971]

lunedì 9 maggio 2011

L’inferno vivente

Che a Singapore la droga non sia benvista è risaputo. Un inequivocabile promemoria è offerto ai viaggiatori già prima dello sbarco. Sul modulo d’immigrazione da compilare in aereo, risalta in caratteri rossi la scritta “Pena di morte per i trafficanti di droga”. E non è una battuta. Qui la legge non ha nessun senso dello humour.

La gente non ha ben presente cosa provochi l’eroina? A spiegarlo ci pensa con una crudezza impressionante il comitato per Singapore libera dalla droga. Un vero pugno nello stomaco in forma di manifesto appeso alle fermate dei bus, nei corridoi della metropolitana, sui muri.

Un gabinetto pubblico visto dall’alto, tinte volutamente dure, bianco e rosso purpureo, un cubo - tre muri ed una porta – immagine di angoscia e di squallore. Un rotolo di carta igienica, cereo in quell’orgia color sangue è stranamente appeso alla porta. E poi, sui due muri laterali al cesso, cinque strisce che graffiano le piastrelle luride. Unghiate di animale da preda. Icona grandguignolesca della sofferenza, chiosata dalla scritta sottostante, spietata nella sua chiarezza, brutale nella sua scientificità: La disintossicazione dall’eroina ti fa defecare per ore. Il tuo ano si sfalda in piaghe aperte. La carta igienica assomiglia ad un vetro tagliato.

Ed ancora, in piccolo, ad ulteriore monito di chi non fosse sufficientemente convinto: Quattro, su cinque che provano l’eroina, non ne escono più. L’eroina è l’inferno vivente.

L’inferno vivente, oppure è vivere l’inferno. La frase inglese si può tradurre, indifferentemente, nelle due maniere. Tanto il messaggio è lo stesso. Dall’inferno non si torna. Vivi.

Prima pubblicazione : 2 ottobre 2008

domenica 8 maggio 2011

Da bao

È così semplice fare del bene. Gratis. Riflessione che prende spunto da una delle abitudini radicate in altre culture, ma che in Italia è assolutamente considerata con antipatia, quando non disgusto.

In Cina, alla fine del pasto, se ci sono degli avanzi di un minimo di valore (le porzioni non sono individuali ma collettive, per cui i resti sono quasi sempre cibo né toccato né assegnato ad alcun commensale), è buona abitudine chiedere il da bao. Che significa impacchettare. A richiesta dell’ospitante, una cameriera provvede a confezionare le rimanenze di cibo in apposite scatolette e consegna il tutto in un sacchetto annodato, per portarselo via. Il ragionamento non fa una grinza. L’ho pagato, quindi questo cibo è mio. Me lo porto a casa e se ne ho voglia lo do al cane. Oppure lo scaldo domani e me lo mangio io. Giustissimo.

In Italia, non ho mai capito perché, questa sana abitudine di non sprecare cibo non esiste quasi. Salvo qualche memoria che conservo di antichi matrimoni al sud, dove è d’uso esagerare, ed allora ti può capitare di portarti a casa un’aragosta intera, l’equazione è guarda, si porta a casa gli avanzi, poveraccio, non si può permettere di sprecare, ha bisogno anche di questo per sopravvivere. Ci si vergogna di chiedere qualcosa che è già nostro perché dal conto stai tranquillo che non te lo scalano, se lo hai avanzato. Mah.

Comunque. Quando si è in Cina o in altri posti dove c’è un sacco di arricchimento selvaggio, e troppa povertà a fargli da contraltare, ricordatevi che potete fare del bene perfino gratis. Avete pranzato, o cenato, in un ristorante locale? Di solito restano sempre degli avanzi sul tavolo. Di nessun valore, per chi si può permettere di andare al ristorante. Ma provate per una volta a chiedere il da bao. Uscirete con un buffo, forse imbarazzante sacchetto pieno di derrate inscatolate. Ma vi assicuro che l’imbarazzo sarà breve. E lascerà posto a un sentimento differente. Non vi occorreranno due minuti di passeggiata, per avere qualche poveruomo pencolante sulle stampelle o qualche donna affardellata di bambini cenciosi che vi chiederanno non dei soldi, ma direttamente la sportina. Quella è fame, sappiatelo. Noi siamo abituati ai soliti ragazzotti che ti chiedono un euro …per un panino… ma già sai che andrà a finire in vena, non nello stomaco. Questi se devono scegliere tra una moneta e del cibo quasi caldo, non hanno dubbi.

Ieri sera, a Pechino, ne ho vista una, di queste disgraziate, ottenere l’ambito regalo e fuggire rapida e guardinga come un cane quando ghermisce un osso succulento e teme che qualche rivale glielo strappi. Che pena.

Ricordate. Quelli che per voi non sono altro che inutili rimasugli, per gente infinitamente meno fortunata sono leccornie inusitate. Talvolta possono fare la differenza tra la vita e la morte. Di un bambino. Da bao. Rammentatevi queste due semplici parole. La prossima volta vincete la vergogna ed uscite orgogliosamente dal ristorante con un sacchetto in mano. Farete del bene. Presto. E gratis.

Prima pubblicazione : 14 agosto 2007

sabato 7 maggio 2011

Stop revive survive

Slogan di grande impatto, è uno dei mille simboli della maniacale attenzione dei governanti australiani verso la guida sicura. Nei week-end lunghi, o nelle vacanze scolastiche, quando la gente si sposta e trova normale farsi ottocento chilometri in macchina, la polizia non può costringere tutti a fermarsi per non addormentarsi al volante. E allora? Sfrutta la loro passione per il caffè. Cartello: fermati, riprenditi, sopravvivi! Se ne vedono ogni circa cento chilometri, in corrispondenza di apposite aree, dove fermarsi, fare quattro passi, scaricare la fatica e bere una bella tazza di caffè. Gratis. E chi paga?, chiedo al mio ospite. Le attrezzature sono finanziate dall’Autorità delle Strade dello Stato, mentre il caffè è gentilmente fornito dallo sponsor, la Nestlè.

Ossessione da eccesso di velocità. Sulle strade si combatte la quotidiana battaglia tra forze di polizia e guidatori indisciplinati. Persa in partenza dai secondi. Lottano infatti contro attrezzature avveniristiche, a cui si può rispondere solo con la forza della ragione: guidando cautamente. I poliziotti, con in mano un aggeggio a metà tra un phon ed una telecamera, sono in grado di traguardare una vettura a più di mezzo chilometro di distanza, aspettando poi che il pollo arrivi a tiro, per notificargli l’infrazione. E sanno esattamente dove appostarsi. Quando li vedi, è già troppo tardi. Vetture civetta, con un radar sul cruscotto, inseguono gli ignari automobilisti. Giorno e notte. Un flash da un ponte, o dal lato della massicciata, o magari dalla vettura che ti segue, e sai che sei nei guai.

Prevenire è meglio che pagare. Le automobili sono dotate di un curioso gadget elettronico, che permette di essere avvisati da un fastidioso cicalino, non appena si supera la velocità impostata. Così, guidando, la gente passa il tempo a verificare i cartelli dei limiti e modificare le impostazioni del giochino salva-patente. Perché ogni infrazione ai limiti di velocità, oltre alla multa, deduce quattro punti dal totale di dodici a cui ha diritto ogni automobilista, prima che gli venga sospesa la patente per un mese. E nei week-end lunghi, giusto per rendere più avvincente il gioco (e più attenti i guidatori), le infrazioni valgono il doppio dei punti!

Passare col rosso? Neanche a parlarne! Sensori annegati nell’asfalto segnalano l’incauto che impegnasse indebitamente l’incrocio. Lo aspetta una bella istantanea che frutterà, oltre alla multa, altri punti al gioco-patente.

Però una quota dei proventi delle contravvenzioni viene destinata all’Autorità del Traffico dei vari stati, per le migliorie alla viabilità. Un esempio emblematico. Percorrendo una strada che esce da Perth, incontro una lunga e costante salita, diciamo cinque chilometri. Qualche anno fa, mi raccontano gli amici italiani di cui sono ospite, un camion a rimorchio si è trovato senza freni proprio all’inizio di questo declivio, peccato che stesse scendendo. Dopo cinque folli chilometri di disperati tentativi di controllare il bestione ingovernabile, è piombato a tutta velocità sull’incrocio in fondo alla discesa, falciando numerose auto ferme al semaforo. Mai più, si disse allora. Soluzione? Con i soldi delle multe, si è costruito, all’inizio della discesa, un piazzale nel quale i mezzi pesanti sono obbligati (e non si scherza con gli obblighi) a fermarsi ed a provare l’efficienza dell’impianto frenante. E se la fatalità capitasse proprio durante la discesa? Quasi al fondo, dove la strada fa una curva, il colpo di genio.

Truck arrester bed. Che consiste in un rettilineo cieco, naturale proseguimento della strada, dotato di sponde in cemento, lungo un paio di centinaia di metri, e con un letto di ghiaia profondo mezzo metro, dove il camion in emergenza può gettarsi, certo che affonderà lentamente nella ghiaia fino al completo arresto, e senza danni per nessuno. Come le vie di fuga in sabbia degli autodromi. Geniale. E costoso. Bastava pensarci e avere le risorse economiche per realizzarlo. E - soprattutto - avere la volontà di fare qualcosa di veramente concreto per la sicurezza degli automobilisti.

Rifletto. Forse in Italia ce la saremmo cavata con quattro cartelli che invitavano alla prudenza. In Australia no. La sicurezza stradale non è un optional. Magari pagherei meno malvolentieri una multa, sapendo che una parte di quei soldi serviranno a farmi viaggiare più sereno.

mercoledì 4 maggio 2011

La voce della Terra

Il mio primo viaggio in Nuova Zelanda, quattordici anni fa. Un racconto inedito, dedicato al luogo che considero forse il più affascinante del mondo.


Gli antipodi. Terra bellissima. Da bambini si disegnava sulla palla della Terra quella gente con la testa all’ingiù, come facevano a stare così, non gli andava tutto il sangue alla testa? Terra remota, lontana da tutto, terra che non ci passi per caso, ci devi proprio volere andare per capitarci. Terra di contrasti, con panorami diversissimi.

I dolci declivi di certa Inghilterra, verdi, verdissime colline su cui sembra che un seminatore celeste abbia sparso, con ampio gesto, pecore a perdita d’occhio. Le asperrime cime di vulcani spenti e attivi, dalle colate che aprono, scavano, spaccano e riformano la terra, dandole surreali tonalità da tavolozza cubista. Isolette incantevoli, un mare cristallino che fa da specchio a spiagge sabbiose contornate da prati smeraldini, ti viene da chiederti come facciano ad avere quei colori, ma la salsedine non li brucia? E nell’isola meridionale, quella più fredda, montagne spettacolari, Alps, proprio così, chiamate esattamente come le nostre Alpi, e ancora vulcani.

E poi ancora, per la natura instabile del cuore su cui appoggia questa terra, zone geotermiche con fanghi bollenti, e geyser che si innalzano nel cielo, lanciando a ritmi regolari le loro altissime fumate bianche di vapore. Ma non è neppure l’occhio quello colpito di più da questo spettacolo naturale. No. È l’orecchio. È il rumore, la voce della Terra. Terra viva, Terra creatura. Le cui viscere calde e irrequiete emettono i loro umori. Terra che si lamenta, geme, cerca di sfogarsi, infine trova la sua via e soffia fuori il suo calore con un suono sordo, cupo, rabbioso, indimenticabile. È la Terra che mostra quanto sia forte, indomabile, incontenibile. È la Terra che ci ricorda le proporzioni.

Prima redazione : aprile 1997

lunedì 2 maggio 2011

Romano Levi, la tua favola vera

Tre anni. E sembra ieri, che te ne sei andato. Ti ricordo, Romano. Così.


Addio, Romano. Dopo una vita passata nel tuo mondo minimo, in quella cascina di Neive in cui il tempo pareva essersi fermato, dove vivevi con i tuoi gatti, con i tuoi ragni, con quell’incredibile alambicco a fuoco diretto che creava la tua rara, anelata, singolare, venerata grappa, con quei botticini di inchiostro con cui creavi, poeta e sognatore quale eri, quelle etichette uniche ed inimitabili, te ne vai. E porti con te la magia, il segreto del tuo amore per quello che facevi.

Era un gioco, il tuo. Raccontavi, quando avevi tempo, la tua favola ai visitatori e ai turisti che arrivavano da tutto il mondo per incontrarti, con la speranza di uscire di lì con una bottiglia. Ma non avevi mai tempo. Eri sempre arruffato, sempre in affanno, sempre intento a fare qualcosa, anche quando non era stagione di distillazione. In trent’anni di conoscenza avevo sentito talmente tante volte il racconto fatato del ciclo della natura, che talvolta, quando mi trovavo da te ed inaspettati ti arrivavano a casa degli escursionisti tedeschi, mi facevi il massimo onore di lasciarmi fare da cicerone, e raccontar loro, in vece tua, davanti ad un bellissimo ed imponente alambicco, in quella stanza a mattoni vivi piena di ragnatele che veneravi e guai a toccarne una, come anno dopo anno si ripetesse quel piccolo miracolo.

E spiegavo loro come ogni autunno i produttori di vino ti portassero le vinacce, in balle pressate, che andavano immagazzinate al riparo dall’aria che le avrebbe potute corrompere, e come tu, a poco a poco, fino alla primavera, le avresti distillate, uno o due carichi al giorno, e dopo aver ricavato quel nettare che nasceva dall’ardore del fuoco diretto e dalla passione di un artista eccentrico, le vinacce ormai spremute di ogni linfa venissero fatte seccare, per poi utilizzarle come combustibile che avrebbe alimentato la caldaia. Infine, le ceneri che restavano di quei falò artefici di delizie sarebbero tornate alla terra di Langa, concime ambito e naturale che avrebbe aiutato i generosi vigneti di barbaresco a riprodursi e a dare, stagione dopo stagione, nuovi grappoli che la spremitura avrebbe trasformato nelle prossime vinacce che Romano avrebbe distillato. E il ciclo si chiudeva. Tutto partiva dalla terra, tutto tornava alla terra. Una favola vera. Che emozionava sempre gli ascoltatori, come io mi emozionavo ogni volta che te la sentivo raccontare.

Il grappaiol’angelico, aveva inventato per te l’immaginifico Veronelli. Romano Levi, vivevi fuori dal tempo, come un angelo caduto sulla Terra. Oggi quella donna selvatica coi fiori tra i capelli, che le tue mani avevano disegnato mille volte sulle tue bottiglie irripetibili come opere d’arte, ha gli occhi chiusi. Forse piange il suo creatore che se ne è andato, tornando per sempre alla terra che tanto amava e che sempre narrava, con la semplicità e il candore di un uomo che aveva l’animo ingenuo e schietto di un bambino.

Ti volevo bene, Romano. Qualcuno lassù sarà più beato del solito, se avrai portato con te una delle tue bottiglie.

Prima pubblicazione : 2 maggio 2008

domenica 1 maggio 2011

Jewish humour

Let me tell you the one thing I have against Moses. He took us forty years into the desert in order to bring us to the one place in the Middle East that has no oil!

Lasciatemi spiegare perchè ce l’ho con Mosè. Ci ha fatto girare per quarant’anni nel deserto, per portarci alla fine nell’unico posto del Medio Oriente senza petrolio!

Golda Meir [1898 - 1978]