martedì 30 novembre 2010

Felini infelici

Una dozzina di giorni fa allo zoo di Singapore c’è stato un tragico incidente. Nordin Montong, un inserviente malese di 32 anni addetto alla pulizia delle gabbie, è entrato nell’ambiente dove sono ospitate tre rare tigri bianche, ha guadato una profonda lama d’acqua di protezione, le ha provocate agitando la ramazza, poi si è sdraiato per terra, accoccolandosi in posizione fetale e coprendosi la testa col secchio giallo in dotazione, finchè una delle tigri lo ha azzannato al collo, troncandogli la spina dorsale ed uccidendolo.

La buona notizia è che il 99% della popolazione di Singapore si è pronunciata a favore delle tigri, esigendo che non siano punite in alcun modo. La cattiva è che c’è ancora un insignificante, ma pur sempre esistente uno per cento che sosterrebbe la necessità di abbattere un animale solo perché un uomo con evidenti problemi mentali (perché lavorasse lì, a potenziale contatto con rinoceronti, elefanti e felini da duecento chili è un altro paio di maniche, e boccia i criteri di scelta del personale dello zoo) è andato ad aizzare delle povere bestie nate in cattività, che quindi non avevano mai dovuto ammazzare alcunchè (si noti: per necessità di procurarsi il cibo e non per crudeltà come spesso fanno gli uomini). Le stesse tigri all’inizio sono apparse perplesse per questa inaspettata presenza nella loro enclave, mentre tra l’atterrito pubblico che ha assistito allo scioccante spettacolo c’è stato qualcuno che credeva fosse uno show organizzato. Finchè è emerso l’istinto primordiale di un predatore naturale come la tigre. Con la stessa curiosità, tutta felina, che porta i gatti a tocchicchiare le cose con la zampetta, come quando ruzzano con una pallina appesa ad una corda, una delle fiere ha deciso di saggiare questo inconsueto giocattolo. Peccato che la zampa di una tigre abbia artigli capaci di affondare nella carne umana come un coltello caldo nel burro. E che un suo morso frantumi ossa e squarci tessuti. Ne è bastato uno a spedire al creatore il tribolato lavorante.

Appurato che le tre tigri sono salve (una si è perfino mantenuta aristocraticamente in disparte, non degnando della minima attenzione quello strampalato bipede), resta una riflessione più profonda da fare. Un appassionato etologo, Nirmal Ghosh, autore di libri e giornalista, nonchè amministratore di una fondazione per la difesa delle tigri indiane, nel commentare l’episodio ha ampliato il tema, con gran competenza e ardore animalista.

La televisione, come spesso accade, ha le sue responsabilità nel diseducare il pubblico. Mostrando uomini, solitamente vestiti in completi kaki e calzoncini al ginocchio, che maneggiano serpentoni ed altri animali di mole e pericolo inusitati con l’arroganza sbruffona da cacciatori intemerati, non offre una lezione di verità. Dà a d’intendere agli spettatori che si possano affrontare con superficialità e rischi limitati quelle stesse bestie che loro strapazzano davanti ad una telecamera. Ma non spiega che tali incontri di catch sono addomesticati. Che gli animali usati per le riprese sono abituati alla presenza dell’uomo. E se per caso l’importuno individuo viene morso o graffiato, si guarda bene dal farcelo sapere. Il rosso sangue stona sul kaki, non è fotogenico. E poi che figura ci farebbe, il nostro capitan fracassa?

Questa erronea cultura antropocentrica può portare a tragedie. Qualcuno dovrebbe spiegare ai bambini (e spesso anche agli adulti) che i grizzly in carne, ossa e pelliccia non sono affabili e bonaccioni come l’orso Yoghi. Che il Re Leone è una bella favoletta, e basta. Che Pippo, l’ippopotamo dei pannolini, dal vivo è meglio non farlo arrabbiare, perché sa essere più letale di qualsiasi animale della savana. E infine che occorre rispetto, prudenza e molto criterio, mai si dovesse incontrare sulla propria strada una di queste fiere.

La seconda parte di questo post sara' pubblicata domani.

Prima pubblicazione : 27 novembre 2008

lunedì 29 novembre 2010

Casualties - Vittime

The first casualty when war comes is truth.


Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità.




Hiram Johnson [1866 - 1945]

domenica 28 novembre 2010

Pippo

Pippo non era un cane straordinario. Non ha salvato nessuno che affogava, né ha sbrandato un asfissiando nella casa in fiamme. Non ha mai scovato ingenti quantitativi di droga, né ha rianimato sciatori sepolti nelle valanghe.

Proprio per questa sua apparente anonimità, è invece mirabile il significato del monumento a Pippo. Una piccola statua con una dedica che esonda amore e riconoscenza. Questo capolavoro di rara sensibilità umana si trova a Torre del Lago, nei pressi della casa dove Puccini creava le sue immortali armonie.

Ecco la storia di Pippo, animo bello e libero, come la racconta la piccola lapide vicina al suo bronzeo simulacro.

Pippo, cane senza padrone, dal mantello marrone e dagli occhi dorati colmi di dolori antichi e di una pace ritrovata, visse circa 20 anni sul Belvedere Puccini.

Comparso nel 1977 con una profonda ferita da arma da fuoco sulla schiena, seppe perdonare e conservare fiducia negli uomini.

Adottato dagli abitanti del lago, non compì gesta straordinarie ma insegnò a tutti il vero significato di bontà, perdono, amicizia e libertà.

Prigioniero come ogni essere mortale nella rete della vita e del tempo, testimoniò la magia di un’esistenza pienamente vissuta con dignità e coerenza alla propria natura.

Una storia d’amore e gratitudine reciproca tra l’uomo e l’amico cane.

Una poesia di soave delicatezza. Un conforto, per chi crede che ci possa essere ancora, in questo mondo cinico, chi apprezza l’amore puro e disinteressato che solo un animale ferito e poi adottato da una comunità può dispensare senza aspettarsi ricompense. Grazie, Pippo. E grazie anche a quegli uomini lacustri che ti hanno voluto ricordare. Non occorrono gesti straordinari per essere apprezzati. Bastano pochi valori fondamentali. Libertà. Dignità. Coerenza.

Un grande insegnamento da un piccolo cane. Peccato non averti conosciuto, Pippo. Come me, tanta altra gente ti ha scoperto solo dopo che te n’eri andato, e ti ha accarezzato fino a rendere splendente il tuo monumento. Quel bronzo scintillante commuove. Ogni riflesso di luce è una goccia d’amore postumo versata per te da mille sconosciuti passanti.

Prima pubblicazione : 22 luglio 2008

Valanghe killer

Rieccoci. Torna la stagione sciistica, e con essa gli immancabili incidenti. Imprudenza? Malriposto senso di sfida? Semplice fatalità? Fatto sta che ogni inverno si deve leggere di gente rimasta sotto le slavine. Di soccorritori all’affannosa e spesso inutile ricerca dei corpi. Di disperate corse in ospedale, tentando impossibili rianimazioni. Di private disperazioni.

E come sempre, di killer. Questa volta sono le valanghe. Allora, per protestare contro il diffuso malcostume di dare dell’assassino a qualcosa di inanimato, come la neve, il mare, la montagna, gli alberi, ripubblico quello che avevo scritto due anni fa.

Il killer delle piste

Questo ennesimo abuso lessicale della parola killer mi costringe a dire la mia, che covava dentro già da tempo, come un’influenza mal curata. Non riesco a tacere oltre. Lo so che nei titoli lo spazio è essenziale. E killer sarà anche più breve e pratico di assassino, di uccisore, di omicida. Ma l’immediatezza non può prevaricare la correttezza del costrutto, e guidare i lettori fuori dal seminato.

Prima di scorrere la notizia, mi sono immaginato inseguimenti alla zerozerosette su pendii innevati, con un abilissimo sciatore armato di pistola col silenziatore che alla fine, dopo evoluzioni tra i pini degne dei migliori stuntmen, raggiunge il bersaglio designato dalla mafia e lo liquida con la precisione di un cecchino tedesco. Scena finale girata presso la famosa baita da Joseph, con bondgirls abbronzate urlacchianti di raccapriccio e gente che scappa da tutte le parti o si rifugia sotto i tavoli, ribaltando vassoiate di speck e polenta, mentre il killer si eclissa con un elegantissimo slalom che nemmeno Gustavo Thoeni dei tempi d’oro. Quando è tutto finito arriva la polizia e dice avanti, dove sono i testimoni?

Del fattaccio di Bolzano soltanto la parte finale del mio raccontino corrisponde a verità. E il killer non è un uomo prezzolato dalla mala per far fuori un picciotto che ha sgarrato e a cui l’hobby dello sci si rivelerà fatale, ma solo un arrogante sprovveduto che ha ammazzato un padre di famiglia – davanti alla figlia dodicenne, doppio orrore – rovinandogli addosso a tutta velocità nella sua sciata scriteriata, trasformando così una giornata spensierata di vacanza in una tragedia. Nella miglior (ma dovrei dire peggior) tradizione dei pirati stradali, il farabutto ben si è guardato dal fermarsi, per prestare soccorso e per assumersi le proprie responsabilità. Mi auguro che sia presto identificato e riceva una punizione confacente alla gravità del suo gesto sconsiderato.

L’omicida casuale di Bolzano si va ad aggiungere ad una lista di altri soggetti a cui viene, quando se ne presenta l’occasione, attribuita la qualifica di killer. Così abbiamo la montagna killer, se qualche scalatore vola di sotto da una parete. La valanga killer, che ghermisce la vita di qualcuno, ma la colpa spesso è di qualcun altro che ha tagliato il fronte nevoso, generando la slavina. Il mare killer, di solito operante all’inizio di ogni stagione estiva, ai danni di incoscienti che si strafogano un paiolo di spaghetti e – non sapendo nuotare – si tuffano immediatamente tra i cavalloni; e poi pretendono di non affogare. Tutti queste entità sono in grado, è vero, di uccidere gli uomini. Ma solitamente (con l’eccezione degli tsunami) non sono loro ad andare a cercarsi le persone da ammazzare, ma piuttosto il contrario. Mare e montagna non si sfidano: si affrontano con deferenza e umiltà. L’imprudenza o la troppa confidenza sono le principali cause degli incidenti mortali. Non si è mai vista una montagna spostarsi da sé, all’inseguimento di un certo rocciatore che per ragioni insondabili gli stesse antipatico. E il mare è troppo grande ed infinito per accorgersi di esserini insignificanti che credono di poterlo vincere. Rispettiamo le proporzioni tra uomo e natura.

E inoltre, tanto per concludere con un tema che mi è particolarmente caro: gli alberi killer. Se già non apprezzo che si insultino mari e montagne con appellativi da malavitosi, men che meno tollero che si accusi di omicidio un pacifico olmo o platano che se ne sta lì tranquillo per i fatti suoi, con le radici ben salde nel terreno, finchè un giorno (o meglio, il più delle volte una notte) qualche allegrone decide di andarcisi a stampare contro, su una macchina con troppi cavalli ed un asino alla guida con troppo alcool in pancia. E la colpa è degli alberi? Per favore. Non facciamo ridere i polli. Come quella volta che, a causa dei troppi imbecilli che si impastavano contro le piante su un bel viale ombroso, ci fu qualcuno (credo un politico locale, e mi auguro abbia avuto una carriera estremamente breve) che suggerì la soluzione a tale strage: abbattere le piante, e permettere così ai guidatori amanti della velocità e dalla sbronza facile di decollare serenamente verso i campi limitrofi. Geniale, no? Si sa quanto ci sia bisogno di concime per far crescere le messi rigogliose. L’assessore che propose tale rimedio ben doveva intuire quanto fossero piene di tale fertile sostanza le zucche dei guidatori in questione. C’è anche un efficacissimo modo di dire inglese, per rappresentare tale condizione: shit for brains. In italiano si traduce: idiota.

Connazionali e politici legislatori: imparate da Singapore. Ieri, venerdì speciale da simposi di amici che si riuniscono a celebrare le festività con cene e libagioni, la polizia ha organizzato lungo l’intero arco della nottata una serie di posti di blocco mobili all’australiana (dai quali non si scappa), controllando una per una tutte le vetture che si incolonnavano lì. Diciotto guidatori sorpresi con troppo alcool in corpo per stare al volante. Diciotto arresti. Avete capito bene: arresti. Non una semplice contravvenzione e via tutti a casa a finir di festeggiare. Questi furboni rischiano fino a sei mesi di galera, diverse migliaia di dollari di multa ed almeno un anno senza patente. La prima volta. Se recidivi, la condanna penale è obbligatoria. In gattabuia avranno tutto il tempo per pensare che era meglio stare due decimi sotto il limite che uno sopra. Chissà quando (o se) l’Italietta furbesca e insubordinata diventerà un paese civile. Io ci spero sempre. Forse allora la smetteremo di leggere di gente ammazzata sulle strisce da bastardi ubriachi al volante. E di alberi col passamontagna e la magnum 44 nascosta tra le foglie, pronti a far fuori chi passa proprio dal loro viale.

Prima pubblicazione : 27 dicembre 2008

sabato 27 novembre 2010

Sogni d’oro

È notorio che i giapponesi sono usi trascorrere ore e ore al lavoro, oltre l’orario stabilito, come segno di attaccamento all’azienda. Ma non basta. Se il capo invita i suoi collaboratori a cena fuori, un rifiuto, salvo ragioni di vita o di morte, non è previsto. Men che meno se decide, dopo le libagioni, che la truppa debba bere con lui. Il prosieguo di serata si svolge in qualche localaccio, dove tenzoni inebrianti a base di cognac o whisky hanno il sopravvento sulle gambe dei tapini convenuti. Insomma, si esce di casa all’alba per andare al lavoro, e talvolta non vi si torna nemmeno per dormire, se l’ultimo treno o autobus son già partiti. Prendere un taxi è fuori discussione, sia per il costo esorbitante sia per l’ostinato rifiuto di molti tassisti di caricare ubriachi. E la moglie a casa? Rassegnata al suo ruolo marginale, si conforta, in assenza del soggetto in carne e ossa, con un cuscino antropomorfo dall’utile funzione suppletiva.


È un articolo già in commercio da tempo, del cui rinvenimento non meno vanto. Ma plaudo ai suoi inventori. Infatti il salutare oggetto vanta non pochi benefici, in confronto all’originale. Per esempio non russa come un barrocciaio, non promana effluvi alcolici sufficienti a causare mancamenti al solo aspirarli, e per solito non si alza a metà nottata per andare a vomitare in bagno – nell’ipotesi più fausta che ci arrivi.

Ma vogliamo che una società maschilista come quella giapponese abbia pensato ad alleviar le malinconie di donne sole solette a casa mentre i mariti dormono negli hotel-capsula con le stanze della dimensione – e la comodità – di un loculo cimiteriale, trascurando di concedere un paritario conforto agli uomini che sono altrettanto privati di muliebre compagnia? Non sia mai.

Ovviamente gli uomini hanno altre priorità. Laddove alle signore, bisognose di coccole e senso di legame, si offre un artificiale tronco maschile con tanto di camicia e braccio cingente, ai signori si propone qualcosa di allettante ma non troppo, se no si perde di vista lo scopo, che è quello di farli addormentare. Ed ecco il capo d’opera. Un cuscino in forma di paio di gambe femminili rannicchiate, sul quale il solingo giapponese potrà assopirsi serenamente, giacendo appo il grembo di qualsivoglia fanciulla gli venga la fantasia di immaginare. Dettaglio non trascurabile: in dotazione due gonne di colori diversi. Fa certamente una gran differenza, acquattarsi su delle cosce di gommapiuma con la minigonna nera, piuttosto che rossa!


Sempre nel rispetto della parità tra i sessi, ecco due manufatti che si guadagnano un posto d’alta classifica nell’antologica rassegna Mai più senza. Ringraziamo i giapponesi per la loro quasi inesauribile vena creativa, che ci assicurerà sollazzo e buonumore per molto tempo a venire. È una promessa.

Prima pubblicazione : 8 febbraio 2009

venerdì 26 novembre 2010

Rodney the great - 2

I went to a fight the other night, and a hockey game broke out.

A girl phoned me the other day and said "Come on over, there`s nobody home." I went over. Nobody was home.

My wife and I were happy for twenty years. Then we met.

I went to a bar for a few drinks. The bartender asked what I wanted, "surprise me" I said, so he showed me a naked picture of my wife.

My psychiatrist told me I was crazy. I told him I want a second opinion. He said okay, you're ugly too.

A hooker once told me she had a headache.


L’altra sera sono andato a vedere una rissa, ed è scoppiata una partita di hockey.

Mi chiama una ragazza l’altro giorno, e mi fa, vieni, non c’è nessuno a casa. Sono andato. Non c’era nessuno.

Mia moglie ed io siamo stati felici per vent’anni. Poi ci siamo incontrati.

Sono andato in un bar per bere qualcosa. Il barista mi fa, cosa vuoi?, io gli rispondo, sorprendimi. Mi ha mostrato una foto di mia moglie nuda.

Il mio psicologo mi ha detto che ero matto. Gli ho risposto che volevo sentire un altro parere. Va bene, mi fa: sei anche brutto.

Una prostituta una volta mi ha detto che aveva mal di testa.

Rodney Dangerfield [1921 - 2004]

giovedì 25 novembre 2010

L’insalata di Cesare

Al povero Cesare è toccato il dubbio onore di vedersi, suo malgrado, intitolare una delle insalate più onnipresenti sul pianeta. La Caesar’s salad fa parte del trittico degli orrori gastronomici internazionali, con le sue degne complici: la bruschetta (rigorosamente pronunciata bruscetta e altrettanto rigorosamente umida, molliccia e insipida) e la pizza, la cui anima semplice e popolana viene oltraggiata dalle mille varianti che ogni artista locale si inventa (volete degli esempi? l’havaiana, corredata di tocchi di ananasso, la meat lover, con un inquietante elenco di quattordici tipi di carni diverse sopra, dal quale mancano, per squisite ragioni pratiche, solo l’ornitorinco e il rinoceronte indiano, e perfino la pizza alla nutella, giuro, l’ho vista, ahimè, con questi poveri occhi, a Sydney...).

Questi piatti allignano come metastasi nei menu di indegni ristoratori che si vogliono dare un’aura di internazionalità. Di solito, pensando che faccia tendenza, e con aria importanziosa, amano definire la propria cucina fusion. Che in realtà, diciamolo, è un pastrocchio di stili e di gusti. Rubacchia pezzi di ricette di qua e di là, non assomiglia a nessuna e cerca di soddisfare il palato di sprovveduti turisti, non dediti alla scoperta dei sapori locali, ma allettati dalla globalizzazione culinaria e bisognosi di sentirsi a casa loro anche a diecimila chilometri dal proprio portone.

Ebbene, perché parlare di una di queste deplorevoli congerie alimentari? Perché proprio grazie a lei, ho potuto conoscere ed apprezzare un italiano degno di menzione.

In un hotel di Singapore vedo il menù del ristorante italiano. All’estero amo provare i cibi caratteristici del luogo e tendo a non sedermi in locali che ostentano tricolori o gondole, e che, salvo rare eccezioni, offrono pietanze irriconoscibili, o perché adattate ai palati indigeni o perché preparate da un cuoco che sembra Sandokan. Ma la lista delle vivande mi incuriosisce sempre, adoro sbirciare quei fardelli patinati appesi fuori, specchietti per le allodole a richiamo dei turisti, che smascherano ogni pubblicità, svelando le verità nascoste sul locale. Spesso basta un’occhiata per capire se davvero ci sono degli italiani dietro ai fornelli oppure no. I tranelli linguistici sono rivelatori, come quella volta che a Melbourne a momenti casco per terra dalle risate, leggendo il menù di un ristorante pseudo-italiano, che vantava tra le sue specialità il peto di pollo!

Ma torniamo a Singapore. Tra i primi piatti spiccano i casoncelli. Niente male. Nemmeno in Italia tutti sanno che cosa siano. Salvo che uno non sia stato a Bergamo e abbia gustato i loro ravioli, che nel dialetto orobico son detti casonsei. Dunque lo chef deve essere davvero dei nostri, penso.

Ma il colpo di genio viene più sotto. Nel reparto insalate si legge tutta la sua sofferenza nel dovere ammettere, in una lista dalle voci tutte autentiche e degne di un Carnacina, la fatidica, falsa italiana, Ceasar’s salad. Segno evidente che l’americanizzazione del gusto costringe a dei compromessi. Ci saranno dei clienti che se la aspettano. E sia. Ognuno è libero di saltarla. La vendetta (del ristoratore serio) è un piatto che si serve freddo, come la malefica pietanza. Che nella sempre presente traduzione italiana del menù è descritta come “Insalata non me ne voglia Cesare”.

Che creazione. Ci si legge la sommessa vergogna di chi patisce a dovere sfruttare il nome del nostro antico condottiero per somministrare quella vile vivanda sbrodolante una intirizzita salsa americana. Quella frase non è un cibo, è una profferta di scuse.

Non potevo non conoscere l’autore di siffatta estrosità. Geniale in cucina come sulla carta. Siamo diventati amici. Potenza delle parole.

Prima pubblicazione : 20 agosto 2007

mercoledì 24 novembre 2010

Where do dogs go?

If there are no dogs in Heaven, then, when I die, I want to go where they went.


Se in Paradiso non ci sono cani, allora quando morirò voglio andare dove sono andati loro.


Marcel Van der Zee

martedì 23 novembre 2010

Il ritorno di Cronaca Vera

C’era una volta una rivista. Si chiamava Cronaca Vera. Esponeva invariabilmente in copertina delle prosperose fanciulle scollacciate, dallo sguardo languido e promettente paradisi di voluttà. Ma erano i suoi titoli la vera arma di seduzione di massa. Diciottenne violentata per dieci ore di fila dallo zio che la attira nel fienile con la scusa di mostrarle la nascita del vitellino. Erano talmente esorbitanti da suscitare ilarità anziché raccapriccio.

Tale rotocalco non era di esclusiva fruizione da parte di maschiacci allupati che lo compravano di sottecchi, alzandosi il bavero del cappotto, e avevano poi cura di intabarrarlo tra giornali filo-clericali e periodici per famiglie dabbene. Anzi, i racconti erano diretti ad entrambi i sessi, e talvolta miravano a risvegliare le sopite brame di signore al limitare della menopausa. Il luogo deputato alla lettura era la spiaggia. Dette signore, spaparanzate sulla sdraia, lardellate in costumi di due taglie più piccoli del necessario, simulavano scandalo e sbigottimento per le notizie, quasi esclusivamente piccanti, ma con qualche sapiente aggiunta di drammoni familiari, tipicamente stragi per inguaribili gelosie. In realtà, sorbivano con irrequieto rapimento le vicende quivi narrate, arrivavano talvolta a commentarle salacemente ad alta voce con le vicine di ombrellone, e non di rado perdevano di vista nipoti sparsi per il litorale a fare piste per le palline dei ciclisti o a scavare sul bagnasciuga infide e traditrici buche, nelle quali franavano vecchi ufficiali semiciechi che borbottavano che tempi che tempi.

Ieri sera per un attimo ho creduto di rivivere i fasti del mitico ebdomadario osé. Poi mi sono reso conto che stavo leggendo le pagine di attualità del The Straits Times, il quotidiano più diffuso di Singapore. Solo che certe storielle da copertina, Cronaca Vera, nonostante il titolo, se le inventava. Invece queste sei notizie sono reali.

Un indiano dell’Uttar Pradesh, sospettando che la moglie lo tradisse con un altro, ha risolto il problema... alla radice, tagliando il corpo del reato al rivale. Dopo averlo ubriacato, aiutato da due cognati, ha privato il trentaduenne signor Kumar (come dire il signor Rossi da noi) della possibilità di ulteriormente cornificarlo. Per sempre. La polizia non ha reso noto se i dottori sono riusciti nel delicato ricongiungimento tra Kumar e la di lui parte che lo ha messo nei guai.

Un cambogiano positivo all’HIV, tale Phat Sarath, è stato arrestato per aver avuto rapporti sessuali non protetti con una quindicenne priva di genitori, in un centro di raccolta per ammalati di AIDS che ospita anche degli orfani minorenni.

Pur sapendo benissimo di trasmettere la malattia, non ha usato condom nei suoi rapporti. Questo è imperdonabile. Così ha detto l’ufficiale di polizia che lo ha arrestato. Aggiungendo che la ragazza è stata pagata. Un euro. Per tre incontri.

Ho fatto fatica a convincermi di quello che stavo leggendo. Un euro. Ma davvero la vita di una minorenne vale così poco?

Ora il bastardo rischia trent’anni di galera, quindici per aver avuto rapporti con una minorenne, ed altri quindici per averli avuti non protetti, sapendo di infettarla del virus HIV.

Due australiani sono comparsi davanti al tribunale di Singapore, accusati di aver rubato i dischi rigidi di alcuni computers di un’azienda. Spionaggio militare o formule segrete per trasformare il piombo in oro? No. Semplicemente le lezioni di una scuola privata d’inglese, Total Literacy.

Se riconosciuti colpevoli dalla corte, rischiano tre anni di galera e 5.000 Euro di multa. Quando si è a Singapore, meglio rigare ben diritti. E questo è nulla. Aspettate e vedrete.

L’Alta Corte – sempre di Singapore – sta deliberando per decidere la punizione adeguata per un ruffiano che aveva combinato un incontro tra una prostituta cinese di 17 anni ed un cliente di 55 anni.

Il giornale sottolinea che sia il pappone sia la sua protetta sono cittadini cinesi. Nello scorso agosto, per il misfatto di cui sopra, era stato semplicemente multato di 4.000 Euro. L’Alta Corte ha deciso che non bastava e ha presentato appello alla sentenza, chiedendo una condanna tra 12 e 18 mesi.

Il conto totale presentato al prosseneta Wang era di quasi 13.000 Euro, perché oltre al lenocinio gli erano stati contestati altri tre reati: l’aver fatto entrare la minorenne straniera a Singapore, il vivere sfruttandola e il dirigere la sua attività fuorilegge nel suo bar nella zona malfamata di Singapore (non ci crederete, ma esiste davvero). Dichiarato insolvente, sta già scontando sei mesi di reclusione, condanna automatica per non aver pagato la multa. E intanto aspetta di sapere se vincerà un simpatico bonus per l’estensione del suo soggiorno nelle patrie galere.

Cronaca Vera non faceva mai mancare ai suoi lettori un bel servizio su assassini, meglio se maniaci, seriali o stragisti. Eccolo anche qui. A Jakarta, capitale indonesiana, centinaia di estremisti islamici hanno manifestato, cantando in coro Allah Akbar, contro l’imminente esecuzione dei tre terroristi condannati per la strage di Bali del 2002, in cui morirono – Saturday bloody Saturday – più di duecento persone, nella maggior parte turisti, novanta dei quali erano australiani.

I radicali hanno chiamato i tre assassini “guerrieri santi”, e minacciato di morte chi farà parte dei soldati fucilieri incaricati dell’esecuzione.

Il governo, in risposta alla civile manifestazione, ha fatto erigere, nella prigione sull’isola di Nusakambangan, i pali ai quali saranno assicurati i tre bombaroli, quando giungerà la loro ora. Che non pare lontana, in quanto fonti ufficiali informano che la fucilazione avverrà entro la metà di Novembre.

Amrozi, detto il terrorista sorridente, Mukhlas e Imam Samudra hanno dichiarato che non vedono l’ora di diventare ufficialmente dei martiri. Evidentemente la panzana delle Huri, le vergini del paradiso mussulmano, funziona sempre.

Ed ora veniamo al capolavoro, quello che il capo redattore di Cronaca Vera avrebbe sbattuto in prima pagina, accanto alla bellona con le puppe straripanti dal reggiseno e una criniera leonina di capelli biondi: uomo accusato per sesso orale.

Il signor Ahmad Dapon ha avuto la disgraziata idea di sperimentare tale disgustosa e riprovevole pratica, in casa propria – e per ben tre volte, razza di maiale – con la sua cameriera indonesiana. Il giornale, in uno slancio di buon gusto, non specifica chi ha fatto cosa a chi.

Embè, direte voi. Embè, a Singapore – ammonisce l’articolo – il sesso orale e quello innaturale (grandioso e farisaico eufemismo) sono reati, udite udite, punibili con una reclusione che va da dieci anni all’ergastolo, e/o una multa.

Ora, a parte il fatto che mi sembra che ci sia una certa differenza tra una multa, sia pur sostanziosa, e l’ergastolo, qualcuno mi deve spiegare come hanno fatto a scoprire la tresca. Vicini impiccioni con l’orecchio sul bicchiere attaccato alla parete? Il tapino si è vantato con gli amici al bar, e qualcuno, invidioso, ha fatto la spia agli sbirri? La cameriera, sindacalizzata, ha trovato da dire sulla liquidazione (absit iniuria verbo) e lo ha denunciato ai gendarmi preposti alla decenza pubblica e privata? E infine, come la mettiamo con le prove? È un processo indiziario, come quello di Clinton e della Lewinski?

Signorina, ci descriva nei dettagli il corpo del reato. Grazie, signorina, si può accomodare. Bene. Adesso la Corte chiede all’imputato di esibire il reperto numero uno alla giuria. Confronto all’americana. Sì, è proprio lui. L’identikit tracciato dalla testimone assomiglia in maniera impressionante all’indiziato. Calvo, con qualche ruga sul collo, corporatura tarchiata, leggero difetto fisico che lo porta a pendere innaturalmente a sinistra.

Il Pubblico Ministero ha avuto un’esitazione, quando, in vista della sentenza, ha dovuto pronunciare la frase di rito: imputato, alzatevi!

Prima pubblicazione : 8 novembre 2008

lunedì 22 novembre 2010

Vieni via con me - 2


Scenata di Bondi in un museo: dei vandali
hanno squarciato un quadro di Fontana.


Corrado Guzzanti

Relativity

How long a minute is, depends on which side of the bathroom door you're on.


Quanto è lungo un minuto dipende da che parte della porta del bagno sei.


domenica 21 novembre 2010

Libertà e amore

Ho sempre avuto, per qualche recondita ragione, una istintiva passione per le aquile. Supremi simboli di libertà, volteggianti su panorami mozzafiato come montagne dalle guglie rilucenti di neve o mari profondi e azzurrissimi, veloci, potenti, leggiadri, maestosi. Bellissime bestie, espressione di armonia della natura.

Oggi ricevo dal mio consigliere spirituale una storia da condividere, con due immagini che parlano di amore, e volentieri traduco questa fiaba dolce, i cui protagonisti sono Jeff e Libertà.

Io e Libertà ci conosciamo da dieci anni. Arrivò nella mia vita nel 1998, cucciola e con due ali rotte. Nonostante un’operazione la sua ala sinistra non si estenderà mai del tutto. Era rotta in quattro punti.

Libertà è la mia bambina. Quando la trovammo non si reggeva diritta, era emaciata e piena di pidocchi. Decidemmo di cercare di salvarla e la portammo ad un centro veterinario. Da allora trascorsi molto tempo lì con lei. Mi sedevo e le parlavo, incitandola a farcela, a sopravvivere. E lei, da sdraiata, mi guardava con quei grandi occhi bruni. Per settimane dovemmo alimentarla a forza, era troppo debole per mangiare da sé. Passava il tempo in un grossa cuccia da viaggio per cani, a cui avevamo tolto il coperchio, imbottita per rendere il suo giacere più confortevole.

Dopo sei settimane ancora non riusciva ad alzarsi. Giungemmo alla dolorosa decisione che se non ce l’avesse fatta entro un’altra settimana, l’unica strada sarebbe stata l’eutanasia. Non volevamo trasformare una riabilitazione in una tortura, e sembrava che la morte stesse vincendo. Il giorno stabilito era venerdì. Giovedì pomeriggio non mi sentivo di passare dal centro, non sopportando l’idea di perderla. Ma alla fine ci andai, e come fui lì vidi che tutti avevano dei gran sorrisi stampati sulla faccia. Mi precipitai verso la sua gabbia, e lei era lì, ritta, una fiera e bellissima aquila. Era pronta a vivere. Delle lacrime cominciarono a scorrere sulle mie gote. Che grande giornata!

Sapevamo che non avrebbe potuto mai volare, così il direttore della clinica mi suggerì di addestrarla sul guanto. La abituai a starmi sul braccio guantato, poi le misi i laccioli sulla zampa. Poco a poco divenne una piccola celebrità, tra giornali, radio, programmi educativi nelle scuole e perfino qualche comparsata in televisione. Miracle Pets (animali miracolati) fece una puntata su Libertà.

Nella primavera del 2000 mi fu diagnosticato un linfoma di terzo stadio. Niente di bello. Dopo otto mesi di chemioterapia non avevo più un capello. Quando cominciai a sentirmi un po’ meglio ripresi a portare Libertà fuori per le nostre passeggiate. Spesso mi capitava di sognarla che cercava chissà come di aiutarmi a combattere il cancro.

In novembre, al termine della terapia, andai a fare l’ultimo controllo. I dottori dicevano che se non era stato debellato dalla chemio, la sola scelta era un trapianto di cellule staminali. Fecero il prelievo per il test, i cui risultati sarebbero stati pronti il lunedì successivo. Mi presentai di buon mattino lunedì, pieno di ansia, timore e trepidazione, per sentirmi dire che il cancro era stato sconfitto dalla cura.

Per prima cosa decisi di festeggiare con Libertà, portandola a fare una delle nostre passeggiate. Faceva freddo e c’era una leggera nebbiolina. Le misi i laccioli e raggiungemmo la sommità della collina. Non dissi una parola, ma lei in qualche modo sapeva. Mi guardò, mi avvolse completamente con le ali spalancate ed appoggiò il becco sul mio naso. Rimanemmo lassù per non so quanto tempo. Fu un momento magico. Dal giorno che entrò nella mia vita seppi che eravamo due anime gemelle. Un animale davvero speciale.

Libertà ha un’arcana influenza sugli infermi. Una volta un malato terminale che conoscevo mi chiese di poterla reggere. Le sue ginocchia tremavano mentre mi giurava di sentire l’energia selvaggia di Libertà scorrere nel suo corpo debilitato.

Ogni giorno ringrazio per l’onore di essere così fraternamente legato ad un magnifico spirito come Libertà.


Soffro di un’incommensurabile invidia per Jeff. Non trovo le parole per descrivere la sensazione che proverei, se un’aquila mi rannicchiasse il capino sul petto, in un gesto di affetto puro, animalesco, ultraterreno. Quell’immagine in bianco e nero sprigiona un’energia primordiale e affresca una tenerezza mirabile. Tienti caro il tuo raro privilegio, Jeff. È da pochi, speciali uomini, guadagnarsi l’amore di un’aquila.

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For the English speaking friends: this fairy-tale is so touching that I publish the original text here, so to share with everyone who happens to read my blog all the tenderness and love in the story of Freedom and Jeff.

Freedom and I have been together 10 years this summer. She came in as a baby in 1998 with two broken wings. Her left wing doesn't open all the way even after surgery, it was broken in 4 places . She's my baby.

When Freedom came in she could not stand and both wings were broken. She was emaciated and covered in lice. We made the decision to give her a chance at life, so I took her to the vets office. From then on, I was always around her. We had her in a huge dog carrier with the top off, and it was loaded up with shredded newspaper for her to lay in. I used to sit and talk to her, urging her to live, to fight; and she would lay there looking at me with those big brown eyes. We also had to tube feed her for weeks.

This went on for 4-6 weeks, and by then she still couldn't stand. It got to the point where the decision was made to euthanize her if she couldn't stand in a week. You know you don't want to cross that line between torture and rehab, and it looked like death was winning. She was going to be put down that Friday, and I was supposed to come in on that Thursday afternoon I didn't want to go to the center that Thursday, because I couldn't bear the thought of her being euthanized; but I went anyway, and when I walked in everyone was grinning from ear to ear. I went immediately back to her cage; and there she was, standing on her own, a big beautiful eagle. She was ready to live. I was just about in tears by then. That was a very good day.

We knew she could never fly, so the director asked me to glove train her. I got her used to the glove, and then to jesses, and we started doing education programs for schools in western Washington . We wound up in the newspapers, radio (believe it or not) and some TV . Miracle Pets even did a show about us.

In the spring of 2000, I was diagnosed with non-Hodgkin's lymphoma. I had stage 3, which is not good (one major organ plus everywhere), so I wound up doing 8 months of chemo. Lost the hair - the whole bit. I missed a lot of work. When I felt good enough, I would go to Sarvey and take Freedom out for walks. Freedom would also come to me in my dreams and help me fight the cancer. This happened time and time again.

Fast forward to November 2000, the day after Thanksgiving, I went in for my last checkup I was told that if the cancer was not all gone after 8 rounds of chemo, then my last option was a stem cell transplant. Anyway, they did the tests; and I had to come back Monday for the results. I went in Monday, and I was told that all the cancer was gone.

So the first thing I did was get up to Sarvey and take the big girl out for a walk. It was misty and cold. I went to her flight and jessed her up, and we went out front to the top of the hill. I hadn't said a word to Freedom, but somehow she knew. She looked at me and wrapped both her wings around me to where I could feel them pressing in on my back (I was engulfed in eagle wings), and she touched my nose with her beak and stared into my yes, and we just stood there like that for I don't know how long. That was a magic moment. We have been soul mates ever since she came in. This is a very special bird.

On a side note: I have had people who were sick come up to us when we are out, and Freedom has some kind of hold on them. I once had a guy who was terminal come up to us and I let him hold her. His knees just about buckled and he swore he could feel her power course through his body. I have so many stories like that.

I never forget the honor I have of being so close to such a magnificent spirit as Freedom's.


Prima pubblicazione : 27 febbraio 2009

sabato 20 novembre 2010

Il boom economico

Fate parte di quella schiera di buontemponi che occupano sabati e domeniche giocando alla guerra nei boschi, spruzzandosi a vicenda di vernice con pistole e fucili come imbianchini impazziti? Passando davanti a un negozio di coltelleria, sentite imperiosa l’esigenza di comprarvi non un bel set di utili lame da cucina, un onesto e quasi innocuo Victorinox, o magari un’affettatrice elettrica per quel pezzo di speck incuoito nel frigo, zavorra della gita sciistica al gruppo del Sella, bensì un pugnalaccio seghettato alla Rambo, roba che ci vuole un libretto di istruzioni per scoprire e comprendere la funzione dei marchingegni assortiti nascosti tra fodera e manico, il novantanove per cento dei quali non avrete mai occasione di sfruttare in vita vostra? Avete pazientemente acquistato in edicola le novantasei ponderose dispense dell’enciclopedia Commando (in omaggio col primo fascicolo il nerofumo per la faccia), andando quindi in estasi alla lettura di: tutto sulle tecniche di guerriglia, colpi micidiali a mani nude, sopravvivenza nelle peggiori giungle e storia dei mercenari dai lanzichenecchi ai giorni nostri?

Bene. Non potete dunque farvi mancare un oggetto che vi offrirà ogni mattina un risveglio in sintonia con i vostri passatempi e mostrerà coram populo il rimarchevole quoziente intellettivo del possessore di tale... schianto.

Booooom!! La sveglia a forma di granata vi comunica – da par suo – che è l’ora di alzarsi. E, al contrario delle altre odiose, trillanti sveglie, che vorreste scagliare lontano ma non potete, questa – come gli ordigni autentici – dovete gettarla davvero, per farla smettere di suonare. O meglio, di deflagrare.

Per la modica mercede di circa trenta euro, vi garantirete il primo gesto di ardimento della mattinata – degno di una macchietta di guerriero. Attenti solo, nell’obnubilamento mentale del fulminante ridestarsi, a non centrare, vezzosamente ritto sul comò, proprio il vaso di finissima maiolica, ricordo di zio buonanima e tanto caro alla vecchia zia. Si sa che le vecchie zie sono molto permalose, e maestre nel brandire battipanni più letali di un Kalashnikov. Come giustifichereste con i compagni di tinteggiate le evidenti ecchimosi sparse un po’ dappertutto e specialmente la vostra improvvisa avversione nei confronti della posizione seduta?

Prima pubblicazione : 1° febbraio 2009

venerdì 19 novembre 2010

Umorismo clericale

Sign posted in a Manila church: “Please do not leave your belongings unattended. Someone might think it’s the answer to their prayers.”



Cartello visto in una chiesa di Manila: "Vi invitiamo a non lasciare i vostri effetti personali incustoditi. Qualcuno potrebbe pensare che è la risposta alle sue preghiere."

giovedì 18 novembre 2010

Tonkatsu

Armonia. Si raccolgono in un'unica parola tutte le sensazioni ed emozioni che trasmette questo locale nei pressi del centro di Tokyo. Non è solo per il cibo che si viene qui. L'armonia ti avvolge, ti circonda, ti attraversa. Ammanta tutto l'ambiente e si manifesta in ogni gesto, in ogni momento. È una presenza spessa, quasi palpabile.

C'è armonia nella frugale cerimonia pagana della preparazione, reiterata all'infinito, della stessa pietanza, sempre e solo quella. Il mio anfitrione, sulla sessantina, ricorda con affetto quando - lui bambino - il padre già lo portava qui a mangiare il tonkatsu. Cibo semplice e saporito, non è altro che una cotoletta di maiale impanata e fritta sul momento in calderoni degni di una cucina da campo, servita fumante, adagiata su un letto di cavolo crudo tagliato a julienne ed insaporita, a scelta, con poca mostarda lacrimogena o con una generosa dose di una salsa bruna, spessa e agrodolce.

C'è armonia nella inusitata capacità del responsabile dei posti che, come entri, ti squadra una volta, memorizza la tua faccia e ti colloca mentalmente nella lista d'attesa dei posti a sedere. E quando è il tuo turno infallibilmente chiama te, non quello prima o quello dopo, nonostante i numerosi attendenti si spargano tutto attorno a casaccio, come greggi al pascolo. Nessun numero, nessun biglietto, nessun promemoria. Solo la sua straordinaria abilità nel tenere a mente le cento, mille facce che ogni giorno affollano il locale, e la sequenza esatta in cui si sono presentate lì.

C'è armonia nei gesti puntuali e mnemonici dell'addetto alla cottura, che con dei lunghi bastoncini di bambù, onusti dalle mille immersioni nell'olio arroventato, pesca e rigira le cotolette. In quel cupo sobbollente liquame non le vede, ma si capisce che sa esattamente dove ognuna giaccia e da quanto sia lì, perché mai sbaglia il tempo esatto dell'estrazione dal pentolone, ed ogni bistecca si presenta sempre bella dorata e croccante, pronta per l'operazione susseguente : il taglio.

C'è armonia nelle mani scarne, quasi diafane, del vecchio e bellissimo chef preposto al taglio. Mani che replicano sempre gli stessi gesti, non con la annoiata ripetitività della consuetudine, ma con il leggiadro garbo di chi affronta con antiche certezze quel tocco di carne che ustiona, appena uscito dall'olio fumigante. Le dita rosate e linde accarezzano la braciola ed eseguono con grazia e precisione un balletto intorno ad un coltello che guizza e offende come un rasoio. La carne, docile, si fa domare e si fraziona in piccoli bocconi, giusto un morsino ciascuno, adatti alla presa delle bacchette con cui si mangia. E poi quelle stesse esperte mani ricompongono la cotoletta nella sua forma originale, i tagli quasi invisibili, affinché ogni piatto goda dell'armonia estetica prediletta dai giapponesi.

C'è armonia nel lavoro di questa équipe di cuochi e camerieri allo stesso tempo. Privi di direttore d'orchestra, pare che ognuno conosca a memoria tempi e ruoli del proprio mestiere, avvicendandosi nelle varie fasi della preparazione del tonkatsu. Visi sereni, gesti misurati ed aggraziati, persone che formano una squadra affiatata, scevra da tensioni ed attriti. Armonia pura.

C'è armonia in quel sedersi contingente accanto a perfetti sconosciuti, regolato dal solo casuale liberarsi dei posti, che subito vengono riassegnati. Niente intimità né privacy. Non ci sono tavoli. Solo un lungo continuo bancone che per tre lati circonda il cuore del locale, la cucina. Essa infatti è il locale, non se ne sta nascosta, come spesso capita, in qualche anfratto, ma si mostra orgogliosa alla vista dei clienti. E mentre si mangia, gomito a gomito col vicino, si assiste allo spettacolo offerto dai laboriosi artefici del gustoso manufatto.

C'è armonia nel tono discreto dei tanti avventori, quasi un sussurro, come si fosse in chiesa, dove i pettegolezzi tra comari formano la caratteristica colonna sonora fatta di esse sibilate sottovoce e di snaccherii di dentiere malferme. Viene naturale abbassare il tono della voce, per non disturbare la delicata liturgia della messa in opera della vivanda.

L'armonia rilassa e distende. Forse è per questo che così tanta gente fa la fila per sedersi a quel bancone. Perché paghi una cotoletta. Ma - insieme col cibo - ti viene regalata una dose di serenità. E questa, non c'è denaro che la compri.

Prima pubblicazione : 31 luglio 2007

mercoledì 17 novembre 2010

Feeding tools - Utensili

I thought about how mothers feed their babies with tiny little spoons and forks so I wondered, what do Chinese mothers use? Toothpicks?


Stavo riflettendo sulle mamme che usano dei minuscoli cucchiaini e forchettine per imboccare i loro bebè. Allora mi sono chiesto, ma le madri cinesi cosa adoperano? Degli stuzzicadenti?


George Carlin [1937 - 2008]

martedì 16 novembre 2010

Madrugada em Peló

Pelourinho, quartiere vecchio e bellissimo di Salvador da Bahia. Case, vicoli, piazzette, chiese. E gente. Dappertutto, i due caratteri dominanti: colori e musica.

Colori sulle facciate pastello delle case, versicolori come un arcobaleno piovuto dal cielo, colori sulla pelle della gente, in uno straordinario miscuglio di tonalità cromatiche.

Musica, che scandisce il ritmo di una sera calda, appassionata, coinvolgente.

Una banda di una decina di persone, i più giovani già oltre i cinquanta, cammina lentissima per i vicoli. Formano quasi un cerchio, fra di loro. Ognuno con il suo strumento, ognuno con la propria voce, danno vita ad uno spettacolo indimenticabile. Sudati come delle bestie, con delle magliette rosse con su scritto Madrugada em Peló, qualcosa come tarda notte in Peló, nomignolo affettuoso del quartiere, trasportano il ritmo di una interminabile samba per le strade. Il vecchio chitarrista, capelli grigi e sguardo perso nel vuoto, sembra andare per conto suo, sulla spalla il braccio di un ometto secchissimo, affardellato delle tante fodere degli strumenti. È cieco il chitarrista, si capisce. La sua ossuta guida dà il suo modesto contributo al gruppo, cantando sottovoce le melodie e guidando lo strumentista in mezzo alla folla.

Energia. Energia pura, ecco quello che trasmette lo spettacolo. Energia vitale, che pare inesauribile. Circondata da gente che balla, la banda si porta appresso un corteo che, lemme lemme, percorre le viuzze. Dove passa, raccoglie persone intorno a sé.

Vecchi, giovani, uomini, donne, bianchi, neri, coppie, solitari, gruppi. Tutti, indistintamente, ballano. Anzi, sambano. Colpiscono certe ragazze giovani, giovanissime, belle, nere di pelle, fisici stupendi e visi incredibili, con quegli impossibili occhi verdi incastonati in un incarnato color cioccolata, che danzano da sole, o strusciandosi sensualmente ai compagni di ballo. Sensuali, ma mai volgari. Il sedere ondeggia, vibra al ritmo della musica, a velocità inimmaginabile, le gambe paiono disarticolate. Dei fantastici burattini che solo il filo invisibile della samba sa fare muovere così. Pantere scatenate, agili come selvaggi felini di cui possiedono la grazia nervosa e repentina, comunicano al mondo la propria interiore, instancabile voglia di sambare.

La banda attraversa i crocicchi delle viuzze. Il poliziotto sulla cantonata (ce n'è uno ad ogni incrocio, e questo ti dà una sensazione di sicurezza non da poco), sposta un cono in centro alla strada. I rari taxisti si fermano pazienti, ed attendono che la processione sia passata. Scendono dalle macchine, si fumano una sigaretta, fanno due chiacchiere. In quel preciso momento la vita intera pare subordinata all'evento. Alla musica. Quel gruppo naïf di vecchietti, con la loro ininterrotta melodia, ha il potere di bloccare il traffico. Trascinando le proprie armonie, e con sé uno stuolo di ballerini improvvisati, instancabili quanto i suonatori, per le stradine di Peló.

Ma come fa a non smettere mai, la musica? E del resto, mi chiedo, come faccio anch'io a non smettere di ballare? Una risposta sola: la musica è l'energia. Un moto perpetuo, un ritmo che, guidato da chissà che dio, esce fuori dagli strumenti. Passano senza soluzione di continuità da un pezzo all’altro, senza un foglio di musica, senza un direttore, senza neppure un secondo di pausa per dire, bene, ragazzi, che brano facciamo ora? Nulla. Un fiume in piena che ti investe, l'energia della samba che esce da dentro di loro in forma di note e di voci. Qualcuno offre una sigaretta al povero emaciato accompagnatore del chitarrista, altri dividono una birra, da tracannare alla bottiglia, con chi si sta esaltando alla fisarmonica, alla grancassa, con le maracas, o chissà che altri strumenti dai nomi impossibili e dai suoni celestiali.

Qui non esiste il sacrilegio dell’impianto stereo che diffonde musiche registrate. La musica, per essere tale, deve essere dal vivo. Impossibile resistere. Ti entra dentro, ti attraversa. Picchia duro nello stomaco, porta le gambe a muoversi da sé. Non puoi non ballarla. Semplicemente non puoi.

E se tutto quello che ti succede intorno non ti spinge a sambare, finché una stilla di energia è ancora dentro ai tuoi muscoli, sudando fuori le birre che compri al volo dai baretti affacciati sulle viuzze, cantando con gli altri le parole che non sai ma che immagini, beh, allora non andare a Pelourinho. Non è che Pelourinho non faccia per te. È che non sei degno di stare in un posto così.

Dai retta, turista che guardi le cose attraverso l’occhio della tua telecamera. Posala. E balla. Ma se non ti viene istintivo farlo, se ti ostini nella tua distaccata, indifferente osservazione elettronica della vita, se l’unica ragione del tuo essere lí é il poterlo mostrare al tuo ritorno a casa, per dire alla fine io c'ero, allora piuttosto comprati delle cartoline. Pelourinho è meglio che la guardi così. Perché a Pelourinho c'eri, sì, ma non l'hai capita. Non l'hai vissuta.

Prima pubblicazione : 17 ottobre 2007

lunedì 15 novembre 2010

Dancing is magic

Dancing is a perpendicular expression of a horizontal desire.


Ballare è un'espressione verticale di un desiderio orizzontale.


George Bernard Shaw [1856 - 1950]

domenica 14 novembre 2010

Sit happens

Straordinario calembour, giocato sulla quasi omofonia con un crasso ma veritiero modo di dire anglosassone. È il titolo di una rubrica dei lettori, in un giornalino a tiratura familiare per appassionati di piccoli animali da compagnia.

La redattrice è Trudi, un’amica australiana che per passione – ma anche per viverci – tiene corsi di educazione per cani. Lei stessa coinquilina di tre cagnetti di varia dimensione ed età, si porta appresso questo pallino da quando aveva quattordici anni. Alla soglia dei quaranta (le australiane non si offendono se chiedi loro l’età, che bello) non ha ancora smesso, né ha intenzione di farlo.

Così una sera mi invita a partecipare alla prima lezione di un minicorso in quattro puntate mirato a dare i primi fondamentali di civile comportamento ai cuccioli.

Insieme con una sua amica, vestite uguali di rosso sgargiante, simili al punto da sembrare quasi sorelle, come spesso accade per le persone che vivono gli stessi interessi e condividono del tempo insieme, eccole in un day care centre per cani, a raccontare la loro favola a un uditorio di una dozzina di trepidanti famiglie con in braccio un animatissimo cagnetto di poche settimane.

Curiosità. Imbarazzo. Ritrosia, quasi timore, come se fosse un primo giorno a scuola. Le due ragazze raccontano, con quella naturalezza che nasce dall’entusiasmo, come un cucciolo possa imparare molto più di quello che uno tende a credere, semplicemente sfruttando la sua passione per il cibo. È proprio vero che i metodi più semplici sono quelli a cui non si pensa mai.

La prima sfida. Come fare sedere un cucciolo. Facce scettiche, sguardi scambiati che dicono, figurati, ho provato in tutte le maniere, non c’è verso di farlo stare fermo questo diavolo. E invece. Trudi prende un croccantino dal marsupio che veste in vita, chiama un ragazzetto pel di carota con un bassotto a pelo lungo, e svela l’arcano con la disinvoltura di chi sembra che non abbia fatto altro che questo tutta la vita.

Appoggia il cibo sulla punta del naso del cane. Poi solleva la mano lentamente all’indietro e verso l’alto, ed il nostro peloso amico, per seguire il profumo del bocconcino andrà naturalmente all’indietro anche lui. Fino a sedersi. A questo punto pronuncia il comando, sit, e gli offre la ricompensa. Il croccantino. Fatto un paio di volte, il cane già associa la voce con il gesto di sedersi e con la conseguente elargizione di cibo. Oplà. Il gioco è fatto. E il bello è che funziona.

Ecco il segreto. Disarmante, nella sua semplicità. Sedersi, come camminare e acquattarsi, sono comportamenti connaturati nel cane. Non glieli devi insegnare. Basta fargli capire che gli stai chiedendo di farli, collegandoli ad un comando vocale ed alla ricompensa.

Poi si è trattato di fare camminare il cagnolino accanto al padrone. E infine, visto che sono dei cuccioli e non dei soldati, la lezione si è chiusa con dieci minuti di socializzazione, in cui i cagnetti hanno familiarizzato gli uni con gli altri. È finito in un’allegra baraonda di latrati, corse e salti, che esprimevano la pura, istintiva gioia di vivere ed energia dei cani non ancora contaminati dalla cattiveria dell’uomo.

Alla fine dell’ora, che è volata, Trudi mi ha detto, mentre spiegavo ti guardavo. Avevi gli occhi che ridevano.

Ho il piccolo rimpianto di essere partito da Sydney, perdendomi così le altre tre lezioni del corso. Mi sarebbe piaciuto vedere i progressi dei piccoli alunni.

La serata è continuata in una semplice ma eccellente trattoria casalinga lusitana, davanti ad una boccia di sangria e gustando un saporoso e lutulento bacalhao portoghese, raccomandato da una giunonica padrona di nome Maria, dai lombi magnanimi fasciati in un gonnellone nero lungo fino ai piedi.

E Trudi, rianalizzando mentalmente il tirocinio e raccontando a ruota libera le tappe del suo fervore animalista, mi ha svelato la semplice filosofia della loro passione fattasi gioco e poi fattasi lavoro: noi non ammaestriamo i cuccioli. Noi educhiamo gli umani a capire i familiari pelosi a quattro zampe. Spesso nemmeno se ne accorgono, che stiamo addestrando loro e non i loro cani. Vanno via orgogliosi dei propri cagnolini, ma dalle lezioni son loro che hanno imparato di più.

L’ho sempre detto: trova un lavoro che ti appassiona, e non dovrai lavorare un solo giorno in vita tua. Beata te, Trudi.

Prima pubblicazione : 10 settembre 2008

sabato 13 novembre 2010

Sotto i capelli niente

Cameriere, c’è un capello nella mia minestra. Ma siamo proprio sicuri che appartenga ad una sguattera sciatta o alla cuoca con problemi di bulbi deboli? Magari è uno dei vostri.

Se siete schizzinose e la scoperta di un capello – seppur nativo del vostro cranio – nel piatto vi dà il voltastomaco, se il solo pensiero di inzuppare la vostra chioma nella ciotola (ma vale anche per la nostrana, appetitosa piattata di bucatini all’amatriciana) vi rovina il piacere del pasto, se avete dimenticato l’elastico per farvi la coda e non volete trascorrere il pranzo combattendo con la capigliatura che si ostina a seguire la legge di gravità, o vi siete appena sottoposte ad un salasso finanziario dal coiffeur che vi ha scolpito un’intoccabile acconciatura all’ultima moda, ecco la soluzione.

Ma dovete avere un forte senso dell’umorismo, saper sostenere gli sguardi della gente e non conoscere il significato della parola ridicolo. Perché non è da tutti esibirsi in pubblico con una mise a metà strada tra il collare elisabettiano dei cani a cui hanno tagliato le orecchie e una improbabile gorgiera di stile secentesco calzata da una scema a cui non hanno spiegato come si indossava.

Buon appetito. E buon divertimento ai vostri commensali.

Prima pubblicazione : 25 gennaio 2009