lunedì 27 settembre 2010

Best pun ever

Time flies like an arrow; fruit flies like a banana.

Intraducibile. E straordinario esempio del giocare con le parole. Tecnicamente si chiama antanaclasi, ma io lo chiamerei piuttosto genio.

(Attribuita a) Groucho Marx

domenica 26 settembre 2010

Amarcord

Ma guarda se mi tocca venire nella vicina Germania per apprezzare finalmente qualcosa di gustoso, di piacevole, di nostalgicamente divertente in un programma televisivo italiano.

Non essendo un drogato da tubo catodico (che non ho ancora pensionato, nonostante le lusinghe dei produttori di schermi ultrapiatti e iperprezzati), ho acceso la televisione nella camera d’albergo solo dopo alcuni giorni di permanenza, ed ho scoperto che oltre a RAI International, congerie delle più nefande trasmissioni a premi italiane, inframmezzate da insopportabili sceneggiati con struggenti primi piani sudamericani e vere e proprie perle di spazzatura televisiva e cinematografica, improvvidamente riesumate da qualche cassonetto, loro appropriata residenza, e così sottratte ad un meritato perpetuo oblio, era sintonizzato un secondo – a me sconosciuto – canale, Rai 2 Educational.

Proprio in questo contenitore dalle apparenti pretese culturali e formative ho trovato un programma che una sera mi ha quasi fatto far tardi a cena, tanto mi ci sono perso dentro.

Qui veniva intervistato un signore d’età, dal viso abbronzato e solcato di rughe, sorriso smagliante, occhio vispo e voce inconfondibile. Guido Pancaldi. Che rammentava come lui e il suo notorio ed imprescindibile socio, Gennaro Olivieri, fossero i veri deus ex machina di una trasmissione cult, negli anni sessanta e settanta: Giochi senza Frontiere.

Arbitri plenipotenziari, dal giudizio insindacabile (e senza tante moviole ad aiutare), cronometro sempre alla mano, col loro caratteristico breve trillo di fischietto davano il via ad ogni gara di quella sarabanda settimanale che vedeva opposta la miglior gioventù atletica di mezza Europa. Sfide spassose, rigorosamente in diretta, commentate argutamente da altri personaggi, mostrati come sono oggi o in immagini dell’epoca. Rosanna Vaudetti, il tempo non sembra esserle passato. Ettore Andenna. Un giovanissimo Claudio Lippi, con una folta capelliera laccata color Biscardi.

Quanti ricordi. La televisione ancora in bianco e nero, con manopole misteriose che solo il tecnico aveva licenza di toccare, e pochi tasti meccanici che schioccavano come nacchere. Il telecomando – peraltro inutile – doveva ancora nascere. Il primo e il secondo canale, ecco tutto quello che si vedeva, salvo i fortunati che con difficoltosi smaneggiamenti riuscivano a sintonizzare fruscianti visioni di Svizzera e Capodistria. UHF e VHF, sigle esoteriche per iniziati, gente con il diploma Scuola Radio Elettra. Il monoscopio notturno e l’intervallo con le immancabili pecore e l’arpa che suonava.

Giochi senza Frontiere annunciava l’arrivo della primavera, si spingeva fin dentro l’estate, e raccoglieva davanti alla tivù comunitaria, nella saletta piena di fumo e di poltroncine spaiate della pensione versiliese, un pubblico eterogeneo fatto di vecchi negozianti a riposo, signorine quarantenni milanesi bencreate e mai maritate, allegre famiglie fiorentine dedite al sorseggio della sambuca con la mosca (il chicco di caffè da sgranocchiare alla fine della libagione), truccatissime carampane con la sigaretta incistata su un lungo bocchino d’osso che faceva tanto fatalona d’anteguerra.

Questa varia umanità tifava per i nostri, riconoscibili dalla grossa I appiccicata su tute attillate ed essenziali, che ben evidenziavano la prestanza degli atleti, dibatteva appassionatamente sull’uso talvolta azzeccato, talaltra disastroso del jolly, che consentiva ad ogni nazione di raddoppiare i punti conseguiti in un gioco solo per puntata, si entusiasmava per il Fil Rouge, altra sadica invenzione del duo Olivieri e Pancaldi, e infine poteva a pieno titolo esercitare ciò che ogni italiano sente come diritto divino: il campanilismo. L’Italia, come peraltro le altre nazioni, era talvolta incarnata da cittadine o borghi in cerca di notorietà, di fama, di una ribalta internazionale che li togliesse dal buio del puntino su un atlante e li lanciasse nella ricca orbita delle località che un turista, italiano o estero, avrebbe potuto visitare. Quando giocava Montecatini i toscani aumentavano le salve di tifo, se passava in tivù Pizzighettone, le milanesi si scalmanavano e vociavano in dialetto meneghino.

Giochi senza Frontiere, in un’epoca di confini ancora pattugliati da gendarmi che ti ficcanasavano nel baule della macchina e sfogliavano il tuo passaporto mentre recitavano il classico niente da dichiarare?, era annunciata dalla sigla dell’Eurovisione, archè e premonizione di un vecchio continente diverso, più vicino, più propizio ai viaggi, oggi addirittura con la moneta unica. Quel refrain trionfale e ridondante sortiva da cento finestre aperte su stanze sfarfallanti di luce bluastra, e richiamava le genti davanti allo schermo, come le campane annunciano l’entrata della messa. E mentre eri seduto lì, in ciabatte infradito e calzoncini corti per dar aria alla gambe arrossate dalle strinature di un sole estivo ancora ritenuto benefico e non foriero di cancheri e altri malanni, pensavi con stupore alla tecnologia che in quello stesso momento permetteva a chissà quanti altri milioni di persone, in Francia o in Germania o in Olanda e perfino nell’isolana Inghilterra di gustare le stesse immagini e di tifare come te per un paesetto semisconosciuto che le rappresentava.

Giochi disputati all’aperto (alle bizze del maltempo si rimediava con un ombrello per i presentatori), scenografie monumentali, quantità industriali di gommapiuma consumate per i goffi costumi che i concorrenti indossavano a impaccio dell’andatura ma anche a tutela da botte e capitomboli, settimane di preparazione per una puntata da novanta rigorosi minuti, niente supplementari, nemmeno un parsimonioso recupero di stile calcistico. E senza l’assillante presenza delle pubblicità che interrompono tutto e diluiscono il pathos. Tutto doveva filare liscio e preciso come un orologio svizzero. Svizzero come l’accento peculiare di Guido Pancaldi, che oggi ride e rievoca, insieme a noi che l’abbiamo vissuta in gioventù, quella stagione straordinaria di divertimento semplice, senza isole, senza reality, senza telecamere indiscrete che spiano la falsa intimità di un gruppo di sfaccendati, senza la volgarità e lo squallore che infesta e rende insopportabile l’odierno intrattenimento televisivo.

Erano ragazzi che giocavano misurandosi caparbiamente, per premio solo una modesta gloria strapaesana. Era una televisione più pulita. Forse più ingenua. Di certo più ricreativa. Allora perfino il canone non si pagava malvolentieri. Anche se le frontiere non ci sono più (sebbene ci sia chi ne vorrebbe costruire di nuove in Italia), ridateci Giochi senza Frontiere. Ma con Pancaldi, le sue giacche color panna, il suo trois, deux, un, friiiiiii!

Prima pubblicazione: 26 ottobre 2008

sabato 25 settembre 2010

Vivere, non sopravvivere (dedicato ad Adele)

And in the end, it's not the years in your life that count. It's the life in your years.

Alla fine, non sono gli anni nella tua vita che contano. È la vita nei tuoi anni.

Abraham Lincoln

venerdì 24 settembre 2010

Adele

Tre anni. Te ne sei andata allora, e ancora ci manchi. Tra un po' si perderà forse quel florilegio di pensieri, di poesie, di racconti forti, energici, sarcastici, possenti. Ti ricordiamo, sai, Adele. Ti vogliamo ricordare, oggi. Così.




E con il racconto che scrissi di getto appena saputo della tua morte.


Addio

Piangere per una persona che non hai mai conosciuto. Ma poi non è vero. Adele, ci conoscevamo. Non di persona. Non per voce. Magari solo da pochi mesi. Ma ci leggevamo spesso. Da quando avevo letto quel tuo racconto straziante sulla violenza sulle donne. Ti avevo scritto un commento. E tu mi avevi risposto. Sai che non avevo capito che l’amica di cui parlavi in realtà eri proprio tu?

Abbiamo continuato a leggerci a vicenda, e a scriverci, fino a pochi giorni fa. Il tuo ultimo commento l’undici settembre. Ancora qualche tuo racconto. Poi più nulla. Ed oggi sappiamo che ci hai lasciati. Dragor ha pubblicato una lettera inviata da tuo figlio.

Flash back. Un salto indietro di cinque anni, per me. Ho saputo di te, della tua morte, leggendo un messaggio di un amico. Cinque anni fa, in Cina, un amico mi aveva scritto annunciandomi la improvvisa, inaspettata morte di mia madre. Quando ho letto di te, Adele, ho riprovato per un attimo la stessa fitta al cuore, lo stesso male sottile e bastardo che ti invade quando leggi qualcosa a cui non vuoi credere.

Ci mancherai, Adele. Ho scritto due righe a tuo figlio, di getto, così come sono sgorgate da dentro in un momento di dolore. Ora scrivo a te, come facevamo spesso, per dirti che è stato bello conoscerti. Leggerti. Avevi tanto da raccontare, avevi storie di una vita avventurosa da regalare a chi ti ascoltava.

L’unica consolazione è sapere che ci hai lasciato il più bel regalo, prima di andartene. I tuoi racconti. Le tue poesie. Ci hai insegnato, con un esempio vivente, che l’età non conta, quando c’è lo spirito, la voglia, la vitalità, l’entusiasmo.

Adele, sei passata brevemente nella mia vita. Ma hai lasciato, come tutte le cose importanti, un segno indelebile.

Eri una donna piena di vita e di amore. La testimonianza vivente di ciò sono i cinque figli che lasci.

Alla famiglia tutta di Adele offro una frase che il mio grande consigliere spirituale, di cui un giorno racconterò, mi inviò quando persi la mia, di madre: ringraziate di averla avuta così a lungo con voi.

Addio, Adele. Mi mancherai.

Prima pubblicazione: 29 settembre 2007

giovedì 23 settembre 2010

L'ultimo paradiso (seconda parte)

Segue da ieri.

Ma ci sono anche episodi che ripagano di fatiche, attriti, incomprensioni, stress da volontario esilio. Le spettacolari notti illuminate dalle aurore australi (noi le conosciamo come aurore boreali perché siamo nell’emisfero settentrionale), dalle tonalità impossibili, iridi opalescenti che fendono con le loro scie luminose un cielo terso e nero come mai si vedrà sul resto del pianeta. I timidi, morigerati incontri con la rarissima e superprotetta fauna locale. Gli incontri, questi meno disciplinati, con colleghi di altre missioni che, come dei vicini che però vivono lontanissimi, ogni tanto fanno visite di cortesia. Esilarante quella della delegazione cinese che, presentatasi non annunciata per la seconda volta, ha suscitato dei sospetti in Rachael. Una telefonata di verifica in Australia, ed ha scoperto che nella base cinese c’erano solo scienziati uomini e che quindi, in buona sostanza, quella per loro era una buona occasione, dopo tanto isolamento, di ripassare come era fatto… l’altro sesso. Ancora più spassoso quando, come è cortesia, la delegazione australiana ha ricambiato la visita, scoprendo con raccapriccio che i cinesi, nella loro ignoranza naif, avevano trasformato una colonia di pinguini in questuanti viziati dagli uomini, abituandoli a venire a mendicare avanzi di cibo e addirittura imbeccandoli fra l’ilarità generale degli astanti. Gli australiani hanno dovuto faticare non poco per convincere i cinesi che ci sono regole inflessibili da rispettare, per non danneggiare con la sola presenza umana i naturali comportamenti selvatici della fauna antartica.

E per contrappasso, le circostanze che ti fanno detestare quella prigionia sconfinata. Nove mesi di cibo deidratato e surgelato. Le severe restrizioni sul consumo d’acqua, che consentono una doccia di ben due minuti, in inverno ogni due giorni e in estate ogni tre (del resto, tra freddo e clima secco, si suda a malapena, e quindi non si puzza come dei caproni). Un aereo, di quelli da trasferimenti tra base e base, danneggiato durante un atterraggio e reso inutilizzabile per il resto del soggiorno. La depressione, che prima o poi qualcuno ci scivola. Soprattutto quelli che sono andati lì per fuggire da qualcosa, come i vecchi legionari francesi. La fesseria fatta da un componente del team che, credendosi al sicuro dagli inflessibili poliziotti australiani, ha pensato bene di guidare una slitta con qualche goccetto di troppo nello stomaco. Rachael lo definisce con sano umorismo polaris drunk driving, ma è andata a finire col mezzo capottato e il parabrezza sfondato. Una bella lezione, che ha costretto tutti, da lì in avanti, a viaggiare esposti allo spietato freddo antartico. La convivenza forzata con un eterogeneo gruppo di colleghi, di cui devi saper accettare tutte le sfaccettature, pure quelle che non ti piacciono. E infine, il mero sapere che, qualsiasi cosa succeda al mondo o nella tua famiglia, anche il fatto più grave e luttuoso, tu sei prigioniero lì e non ti potrai muovere se non quando tornerà la nave rompighiaccio a recuperarti a fine missione.

La cosa più difficile a cui abituarsi? L’assoluta, assordante mancanza di rumore. E ovviamente il suo contrario, una volta tornati alla vita di tutti i giorni. Da un silenzio primitivo al clamore di Melbourne. Orecchie doloranti e il sonno che non viene.

Rachael ha imparato a controllare e dominare tutto questo. E ci ha rivelato, dopo una mezzora di narrazione avvincente, i sei punti indispensabili per svolgere la sua opera di capo missione. Comprendere i colleghi nella loro totalità. Saper assegnare gli incarichi alle persone giuste. Restare calmi nei momenti di crisi – o perlomeno mostrarsi tali agli altri. Ricordarsi ogni minuto l’importanza fondamentale della comunicazione. Prendersi cura delle piccole cose, e quelle grandi si risolveranno da sé. Ridere spesso e aver cura di se stessi. Delle ottime ricette per tutte le occasioni della vita, non solo per sopravvivere in Antartide.

Ha concluso con una serie di fotografie spettacolari, artisticamente montate con un sottofondo musicale che ne esaltava la bellezza incontaminata.

Antartide. Ullallà. Ecco un posto dove anche poter dire conosco qualcuno che ci ha vissuto è già una penna sul cappello – come dicono quaggiù – di un viaggiatore. Se poi questa persona è una brillante professionista che ha coordinato, guidato, consigliato, e infine portato a casa sani e salvi diciotto colleghi di missione, allora non si può non scavalcare la barriera tra oratore e uditorio. Alla fine mi sono presentato, le ho stretto una mano forte e dolce insieme, esprimendole non solo la mia autentica ammirazione per la sua risolutezza e la sua eccellente oratoria, ma ponendole domande, alle quali ha risposto volentieri e con graziosa cordialità.

- Rachael, ci hai detto che non era il classico sogno da bambina, che quest’avventura è avvenuta quasi per caso. Che cosa ti ha spinto a farlo, quale è stata la molla che ti ha fatto dire, un giorno, sì, ci vado davvero?

- La voglia di fare qualcosa di raro, di grande, il senso della sfida, il voler provare a me stessa io ce la farò. Ed un saggio capo sul lavoro, che mi ha assecondata, sostenendo che un’occasione così non ricapita nella vita, e va colta.

- Come sono ora i rapporti con gli altri componenti del team?

- Non quelli che ci si aspetterebbe. Con alcuni si sono formate amicizie che dureranno una vita, altri sono letteralmente scomparsi il giorno stesso dello sbarco in Australia. Alla prima cena celebrativa, di diciotto colleghi, se ne sono presentati sei. E di alcuni degli altri, per inciso, non abbiamo sentito la mancanza.
- Un’ultima domanda, doverosa, quasi scontata: lo rifaresti?

Senza un’esitazione, risoluta e diretta, risponde, con un sorriso: no. Ma è stato grandioso farlo.

Prima pubblicazione: 15 agosto 2008

mercoledì 22 settembre 2010

L’ultimo paradiso

Durante un congresso in Australia, ho avuto la rarissima fortuna di conoscere una persona che per una buona mezzora mi ha fatto visitare un mondo da favola.

In questi tempi di spostamenti sempre più facili ed agevoli, se non proprio a buon mercato, che permettono ad un numero crescente di turisti di raggiungere gli angoli più reconditi ed inaspettati del pianeta, solo una terra resiste, quasi inviolabile, immacolata e naturale, all’assalto del turismo di massa, all’invasione di campo da parte degli umani, che tutto corrompono e tutto piegano alle loro egoistiche esigenze. Qui è la Terra che detta legge, e gli uomini si devono adeguare, se vogliono tornare indietro a raccontarla. Terra da affrontare con umiltà. Terra da rispettare e temere, perché non è generosa. Terra che non perdona errori e arroganza.

Questa terra unica e primordiale, senza confini, senza residenti fissi, senza neppure un governo o una bandiera, Rachael, con grazia e vivacità, con la sua narrazione ammaliante, ci ha preso per mano e ci ha condotto a visitarla. Bella melbournese di circa 35 anni, intelligente e autorevole, dall’eloquio spigliato e dalle certezze granitiche, ha raccontato ad un uditorio ammutolito la sua esperienza claustrale di quasi un anno a capo di una missione scientifica nella base australiana in Antartide.

Ci ha descritto la meticolosa preparazione, mesi e mesi di prove da superare, le più disparate, per essere capaci di cavarsela in qualsiasi emergenza, e senza impossibili aiuti esterni. Training svolto in Tasmania, quanto di più vicino, geograficamente e quindi climaticamente, alla destinazione finale. Trovare una persona in una stanza piena di fumo, nel buio più assoluto, strisciando alla cieca sul pavimento, sapendo che il tempo fa la differenza tra trovarlo vivo e trovarlo morto asfissiato. Rianimare un infartuato. Partecipare ad un intervento in sala operatoria. Aggiustare un gruppo elettrogeno che non ne vuole sapere di ripartire. Un addestramento duro come quello dei marines, dall’alba a notte fonda, per collaudare non solo la resistenza fisica, senza la quale non si scampa a quella terra estrema, ma soprattutto la stabilità mentale. La determinazione. La capacità di reagire agli imprevisti. La fermezza necessaria a mantenere il controllo. L’equilibrio psichico per saper gestire i momenti di scoramento, che non mancano mai in un gruppo costretto a vivere per nove mesi, senza possibilità di ripensamento, senza via d’uscita, nemmeno morti, in quel posto da basilare sopravvivenza.

E poi, finalmente, dopo un ultimo mese pieno di ansia ed euforia, la partenza. Due settimane e mezzo di navigazione imbarcati su una nave rompighiaccio. Se superi quelle, hai già raggiunto una prima meta non da tutti. Immaginate di essere su una nave che, come un enorme apriscatole, fende la spessa crosta di ghiaccio beccheggiando il suo peso avanti e indietro ed affondando la punta tagliente nel pack intirizzito. Rachael illustra bene questa traversata da tregenda con un’immagine vivida ma che dà nausea: è come vivere per venti giorni in una lavatrice che ti sbatacchia di qua e di là come uno straccio. Roba da torcersi le budella dal mal di mare. Nessuno escluso. E questo è solo l’aperitivo. Il bello deve ancora venire.

Mesi di buio assoluto, nell’inverno australe, con temperature medie di meno trentacinque. Due minuti di esposizione delle dita al clima estremo le hanno causato ustioni che hanno richiesto un anno per guarire. Impari subito che anche la minima leggerezza può essere fatale. In una base antartica non ci sono giorni di vacanza. L’unica festa pianificata è il ventun giugno, solstizio d’inverno (siamo nell’altro emisfero). Allora, vestiti eleganti portati apposta per l’occasione, donne truccate e uomini in cravatta. Si festeggia, ma senza esagerare, senza andare a stimolare una sessualità che è forzatamente repressa in questo ambiente ostile e selettivo, dove non c’è posto per i piaceri terreni ma solo per il rigore monastico di una vita organizzata e calcolata al minuto, senza spazio per cantonate o romantiche evasioni dalla routine.

Il pericolo più grande? Non lo indovinereste mai. Non è il freddo. Non è il vento che taglia come una lama. Non è il mare insidioso e glaciale. È il fuoco. Robe da matti. Ma c’è una logica. Il clima è secchissimo. Umidità zero. Basta una scintilla, e le fiamme avvampano impazzite. E l’enorme quantità d’acqua da cui si è circondati, è tutta solida. Non ci si può permettere di sprecare preziose e misurate riserve di carburante per far fondere abbastanza ghiaccio da spegnere l’incendio di una baracca. Occorre assoluta attenzione per prevenire ogni comportamento che potrebbe scatenare una vampa.

Un altro rischio, questa volta susseguente alla missione? L’Antartide è praticamente priva di germi. Si gode di perfetta salute laggiù. Sani come dei pesci. Nemmeno uno starnuto per sbaglio. Ma quando si torna a casa, dopo quasi un anno, il sistema immunitario ha abbassato le difese. La regola dei reduci è un calvario di due o tre mesi. Si paga con gli interessi la floridezza antartica, buscandosi una serie di malanni che il nostro corpo non sa più combattere efficacemente.

Continua domani con la seconda parte. Qui.

Prima pubblicazione : 15 agosto 2008

sabato 18 settembre 2010

Cinesi; falsi; e cortesi. (terza parte)

Cinesi tre: cortesie inaspettate (不好意思耽误您时间).

Cosa sta succedendo alla Cina? O forse è solo Shanghai, e solo per il magico periodo dell’Expo? Mi avevano avvisato, i soliti amici locali, che nei sei mesi dell’Esposizione Universale ci sarebbero stati controlli, verifiche, tempo da perdere in file di gente passata allo scandaglio elettronico, stazioni ferroviarie trasformate in aeroporti, con ispezioni ai raggi ics di ogni bagaglio. La solita mania della sorveglianza, unita all’impalpabile ma presente timore di attentati terroristici o semplici mattane isolate, fa sì che rientrare in Shanghai – anche in autostrada – diventi pretesto per investigare la validità delle ragioni di ogni singola persona per volere proprio varcare le invisibili mura della metropoli.

Tocca avere il passaporto alla mano, arrivati al varco in cui si vanno ad invischiare colonne di mezzi che vogliono guadagnarsi l’accesso alla città che non dorme mai. Districarsi in quel bailamme è cosa per autisti locali, pratici del codice non scritto per cui si passa davanti ad uno, ma non ad un altro, nel vano tentativo di guadagnare qualche centimetro – e qualche minuto.

Il poliziotto fa il suo dovere, lui come mille altre formiche che passano la giornata ritirando documenti, portandoli in un ufficio che si immagina informatizzato, ritornando dopo qualche minuto badando bene di rendere le carte alle persone giuste – cosa non facile, visto che l’indisciplina regna sovrana, ed ognuno si sente in diritto di spostare la macchina, scendere dal mezzo, magari approfittare per una capatina ai servizi (quando non direttamente espletare contro il guard-rail).

Prima che il mio documento torni, un altro giovane funzionario si avvicina alla vettura e – in inglese! – sente il bisogno di spiegarmi che è una formalità necessaria, e accenna il piccolo inchino di chi chiede comprensione. Pochi minuti, ed ecco apparire il passaporto. Lo stesso gendarme che lo aveva ritirato mi lo rende, porgendolo a due mani, segno di rispetto. Solo una frase, che mi lascia di stucco: bùhǎoyìsi dānwu nín shijiān. Le chiedo scusa per aver sprecato il suo tempo. Fa un marziale saluto militare di congedo, mentre il finestrino elettrico risale silenzioso e la macchina già si muove. Mi sento un generale in visita alla truppa, mentre quel fantaccino rimane impettito sull’attenti, e quasi mi viene da contraccambiare quel saluto così deferente.

Che roba. Perfino i poliziotti cinesi improvvisamente gentili e ossequiosi, doveva regalarci questa Expo.

venerdì 17 settembre 2010

Cinesi; falsi; e cortesi. (seconda parte)

Cinesi due: falsi...

Quando si parla di falsi, il pensiero corre subito alle mille imitazioni cinesi da quattro soldi, borse di Prada e di Luois Vuitton, immancabili e ormai insopportabili Rolex, magliette e scarpe, la panoplia degli “i-qualcosa” (iPod, iPhone, iPad). Invece oggi tocchiamo un tema più gustoso, che illustra il livello di sfrontata inventività di cui sono capaci i cinesi.

Una cara amica – virtuale, non ci siamo mai visti di persona ma è come se ci conoscessimo da una vita – mi scrive con una punta di affanno un paio di settimane fa: ho sentito dell’aereo caduto in Cina, dimmi che sei da qualche altra parte. Manco sapevo che fosse successo, grazie del tuo pensiero, tutto bene, sono in Australia. Da frequente fruitore del mezzo, mi viene la curiosità di vedere come è andata. Controllo su internet. Ah, ora capisco. Henan Airlines. Manovra sbagliata in atterraggio, aereo spezzato. Bilancio: su una novantina di persone, 42 morti e 54 feriti.

Vista la dinamica, azzardo un paio di ipotesi. Un guasto meccanico, un errore del pilota? Non mi sorprenderebbe la prima. Ci sono molte maniere di tagliare i costi, anche nell’industria dell’aria. Quante volte si è sentito parlare di ricambi falsificati, venduti come buoni? Con la sicurezza dei voli non si dovrebbe scherzare. Continua a girarmi in testa il nome: Henan Airlines. E ripenso ai non pochi aneddoti ascoltati in consessi conviviali, di una provincia dove le attività truffaldine, piccole e grandi, sono piuttosto popolari.

Come per ogni incidente aereo – perfino in Cina – si apre un’inchiesta. E volete sapere cosa salta fuori? Che oltre duecento piloti di linea hanno falsificato le credenziali, attribuendosi esperienze mancanti e gonfiando le ore di volo effettuate, al fine di ottenere un posto nella prosperosa industria del trasporto aereo del Regno di Mezzo. Metà di questo nugolo di farabutti lavora per la Shenzhen Airlines, la casa madre della Henan Airlines.

Qualche gola profonda nell’ambiente comincia a vuotare il sacco. La pratica di falsificare i curriculum non è un segreto, nel club dei piloti commerciali. L’espansione impetuosa delle rotte interne negli ultimi tre anni ha creato un bisogno disperato di personale. Questa carenza poteva essere colmata facilmente attingendo dai ranghi dei piloti militari, ben felici di passare da un dignitoso lavoro statale al lauto stipendio e alla bella vita da capitano in una aviolinea. E siccome tutto quello che riguarda la Difesa – in Cina e non solo – è coperto da un omertoso ed impenetrabile manto di segretezza, le reali ore di volo accumulate erano impossibili da verificare. Aggiungiamo a questo la fame di organico delle compagnie aeree, disposte talvolta a chiudere un occhio su curriculum non ineccepibili, ed ecco fatta la frittata.

Potenziali incompetenti (far volare un caccia non è esattamente come portare a terra varie centinaia di tonnellate di metallo farcite con carne umana) ai comandi di aerei di linea. La sicurezza di tutti, sia chi sta per aria, sia chi capita sotto la rotta di tali artisti della simulazione (no, non parlo del simulatore di volo), messa a repentaglio. Come la credibilità dell’industria stessa. La gente protesta. Passeggeri adirati chiedono che le autorità applichino pene draconiane a tali truffatori con licenza di uccidere.

Intanto noi viaggiamo sulla nuovissima linea ferroviaria ultraveloce, inaugurata da appena due mesi, che da Shanghai porta a Nanchino. Prima ci volevano tre ore, ora bastano 70 minuti. Meglio che volare. Ottimi treni, di fabbricazione locale, che nulla hanno da invidiare agli Shinkansen, i bullet-train giapponesi. Si viaggia confortevolmente a oltre trecento all’ora. Speriamo solo che il conducente non sia un ex guidatore di apini che ha leggermente pompato le sue credenziali...


Continua ancora, con la terza e ultima puntata. Qui.

giovedì 16 settembre 2010

Cinesi; falsi; e cortesi.

Cinesi uno, corruzione e meretricio.

Il tema del giorno è la lotta senza quartiere alla rampante corruzione nei ranghi dei pubblici amministratori. Milioni di dollari finiscono nelle tasche di rapaci funzionari, sottraendo profitti e credibilità al sistema cinese. La corruzione viene tirata in ballo ogni volta che accade qualche disastro, solo in parte imputabile alla natura. Le case e le scuole costruite con troppa sabbia e scordandosi il cemento sono state al centro di rabbiose manifestazioni delle mamme del Sichuan, che hanno perso una generazione di figli nel terremoto di due anni fa, grazie a costruttori corruttori e a controllori corrotti. La parte più illuminista dei legislatori si interroga se non sia il caso di depennare tredici reati legati al patrimonio dalla lista dei crimini punibili con la pena di morte. Noti avvocati e moralizzatori convinti ribattono che senza questa seria minaccia la corruzione non potrà che espandersi e prosperare ancor di più. Come se ce ne fosse bisogno.

È di oggi la notizia di un centinaio di impiegati pubblici sorpresi nell’orario di lavoro a sollazzarsi in saloni di massaggio, saune e karaoke. Alcuni sono stati sospesi, altri cacciati dal partito, tutti saranno processati. Parrebbe che la corruzione non c’entri con questa storia truffaldina di ordinaria arroganza. Invece c’entra, e per due motivi. Di solito le mazzette vengono transate al riparo da occhi e orecchie indiscrete, negli accoglienti stabilimenti dedicati al benessere del corpo maschile, con particolare attenzione ad una specifica parte dello stesso. E spesso il processo corruttivo viene complementato con l’offerta di fringe benefit, erogati in aggiunta al frusciante danaro. Tipicamente si tratta di gozzoviglie a base di cibi considerati afrodisiaci (pinne di pescecane, frutti di mare, zuppe di ginseng e tutta una serie di cibarie la cui epifania sul desco genera risatine, strizzate d’occhio e allusivi colpetti di gomito), accompagnate da eccessive bevute di maleodoranti liquori di portentosa forza alcolica. Altra categoria di regalie sempre apprezzata dal maschio tipico cinese è la prezzolata compagnia di fanciulle di non proprio specchiata dirittura morale.

Il fenomeno è talmente diffuso e di pubblico dominio da aver spinto le autorità centrali a promuovere corsi e addirittura fiere di comportamento morale. Robe da matti. La fiera del vizio. L’apice semicomico di tale iniziativa è la rappresentazione iconografica di tali malcostumi, costituita da una sedia (lo scranno del potere), tre delle cui zampe si trasformano nelle chiavi che aprono la porta alla corruttela: una pila di banconote, un calice di vino, una gamba femminile col piede fasciato da una scarpa maliziosa.

Ma questa, che viene spacciata dalla stampa come una novità, è storia vecchia, risaputa, fresca di giornata come un uovo stantio dimenticato da troppo tempo in frigo. Per me e per il mio amico e collega, compagno di viaggio da molti anni nel cuore di una Cina complessa e sempre mutevole, la vera sorpresa, la novità, il mai visto prima, è l’inopinata ostensione pubblica, in una lunga e scalcinata strada di una media città dello Zhejiang, di alcune donne, succintamente vestite e vistosamente truccate, che inequivocabilmente non aspettavano un conoscente che le portasse fuori a cena. A me, europeo abituato allo spettacolo spesso sguaiato della prostituzione stradale, non è occorso molto tempo per concludere che di questo si trattava. Il mio amico non ci voleva credere. Poi, una volta convinto dello stato dei fatti, ha chiosato, col suo solito umorismo succinto e dissacrante, la visione di questa novità assoluta, in Cina: un nuovo business.

Per comprendere tanta sorpresa, bisogna fare qualche considerazione: nonostante sia ufficialmente illegale, la prostituzione è diffusissima in Cina. Il suo status di illegalità permette alle autorità costituite di effettuare dei raid contro il vizio, con ridicola puntualità (ad esempio ogni 11 del mese, così i gestori di bordelli quel giorno tengono chiuso e mettono un cartello sulla porta, invitando gli avventori a ripresentarsi domani, e accampando talora scuse esilaranti come l’improvvisa defezione del gruppo generatore di corrente…). Un gioco a guardie e ladri dove le guardie vincono qualche battagliucola, ma i ladri vincono ogni guerra, forti di un esercito di soldatesse che usano ottimamente l’arma di distrazione di massa su cui stanno sedute, e di un ancor più forte manipolo di collaboratori, fatto di uno zoccolo duro di clientela pronta a spendere stipendi e spesso i lauti proventi delle corruzioni di cui sopra, per potere di tali muliebri armi entrare in temporaneo possesso.

Ma la prostituzione è altresì un evento totalmente sotterraneo. Nulla di appariscente. Né procaci ragazze in vetrina stile Amsterdam, né teorie di gonnelline minime e stivali cangianti lungo le provinciali. I cinesi, a ben guardare, sono un popolo di timidi. Hanno bisogno dell’artificiale incoraggiamento dell’alcol per aprirsi e mostrare sentimenti di amicizia altrimenti tenuti ben compressi dentro di sé. Il sesso, come la politica e la religione, non fa parte degli argomenti di conversazione di una serata a cena. Il meretricio è sempre proposto mascherato da qualcosa d’altro, da un’attività con una facciata legittima. Il salone di massaggi. Il karaoke. La sauna. Perfino la bottega del barbiere.

Scherzando sull’improvvisa ed inaspettata visione che ci si para davanti agli occhi, dico al mio amico: da queste parti, chissà perché, gli uomini avranno sempre i capelli impeccabilmente a posto. Perché ognuna delle non più giovanissime signore che colorano con un arcobaleno di vestitini sgargianti la tristezza di questo quartiere sudicio e maleodorante, sta davanti ad una mesta botteguccia senza insegna, mal protetta alla vista da una serranda malconcia mezza sollevata, e dal rado e squallido arredamento: un sofà multicolore sgangherato, una poltroncina in tubolare di metallo, delle modeste tendine divisorie tra la zona convenevoli e la business lounge. Mi risponde il mio amico: scommetto che in tutte queste botteghe non si trova un pettine o una forbice a pagarli.

Queste donne, in una Cina pruriginosa, perbenista e viziosa allo stesso tempo, stanno facendo una provocatoria e ardita affermazione. Sì, sono una prostituta. Eccomi qua. Sì, faccio lo stesso mestiere che – di nascosto, o fingendo di fare altro – altri milioni di donne fanno, in Cina. Ma con molto più coraggio: quello di esporre la propria faccia in pubblico. Pioniere di una nuova frontiera.

Continua, con la seconda parte, domani. Qui.

sabato 4 settembre 2010

Carpe diem

Una vecchia regola del giornalismo dice che la distanza dell’evento deve essere direttamente proporzionale al numero di morti, per fare notizia. E siccome pare che miracolosamente, nonostante un sisma del settimo grado Richter abbia scosso la scorsa notte la città di Christchurch, di morto non ce ne sia stato neppure uno, ma solo dei gran danni materiali, allora la cosa sui giornali italiani si merita giusto un posticino nelle rubriche fotografiche, tra pettegolezzi internazionali, attricette in passerella e caschi motociclistici di decisiva importanza.

Mando un ansioso messaggio ad un amico locale. Non sai mai cosa fare in queste circostanze. Chiamare? Le linee saranno già intasate da parenti angosciati. Meglio non disturbare. Un messaggio arriva e lascia tempo alle cose più importanti. Per fortuna lui mi risponde subito, dicendomi che in famiglia stanno tutti bene, anche se casa e officina sono state lese dalla scossa. Osservo le foto dei crolli, facciate inesistenti, muri sbriciolati, automobili sventrate. Penso a quanto ho trovato bella Christchurch, e a quanto sia fragile l’equilibrio instabile nel quale viviamo tutti. Senza certezze. Di nulla. Quello che abbiamo oggi domani potrebbe non esistere più. Perfino la nostra vita. Per questo occorre cercare di godersela ogni giorno.

Oggi Christchurch è così.


Ma solo ieri era così: la cattedrale ed il centro.


La galleria d’arte.


L’università.


La natura intorno: fiori rosa e cigni neri.


Carpe diem.


venerdì 3 settembre 2010

Geni sconosciuti

Che cos’è il genio? È la capacità di raccontare una storia con un’immagine. Ed ancor di più, di sapere succingere, nelle poche parole di un’aforisma, un concetto, un significato, una fonte di ispirazione, un esempio.

Di questa virtù rendo merito allo sconosciuto cittadino della rete che si firma cavscout, forse americano, certo padrone di ottimo inglese e di arguzia da vendere. Ha saputo dare un titolo – e chiosare da maestro – una bellissima, emblematica foto di Oscar Pistorius.

SUCCESSO

Allora, che scusa hai adesso?

Prima pubblicazione : 27 ottobre 2009

giovedì 2 settembre 2010

Timeless wisdom - Saggezza senza tempo

Believe not because some old manuscripts are produced, believe not because it’s your national belief, believe not because you have been made to believe from your childhood, but reason truth out, and after you have analysed it, then if you find it will do good to one and all, believe it, live up to it and help others live up to it.

Credi non perchè ti mostrano alcuni vecchi manoscritti, credi non perchè è il credo della tua nazione, credi non perchè ti è stato fatto credere così fin da piccolo. Scopri la verità attraverso la ragione, e dopo che l'avrai analizzata, se capirai che può far del bene a tutti, credici, mettila in pratica ed aiuta gli altri a fare altrettanto.

Gautama Siddartha - The Buddha