mercoledì 29 giugno 2011

Saranno stati cento metri...

A due anni esatti dalla tragedia, voglio ricordare i morti di Viareggio. Con le sofferte emozioni del pezzo scritto a pochi giorni dal dramma.

Viareggio offesa. Raccontare un triste capitolo de La mia Toscana. C’è gente, sempre, e dappertutto, lungo quel muraglione che divide la strada dalla ferrovia. C’è chi si ferma con la macchina, scende, osserva e dice madonna che tragedia. C’è il solito crocchio di pensionati che commentano il lavoro delle gru, braccia potenti e pietose addette a demolire la passerella cotta dalla vampata assassina. C’è chi passa, rallenta e si fa un rapido segno della croce. Che chi dice: io c’ero.

Raffaele, accento viareggino e colorito del nativo che all’inizio di luglio è già abbronzato da frequentazioni primaverili di spiagge semideserte, racconta volentieri. Sì, sto un po’ più in là, dice puntando l’indice verso il centro. Abbiamo sentito tre botti di fila, enormi. E poi si è alzata in cielo una palla di fuoco. Saranno stati cento metri...

E continua: è andato tutto di là dalla ferrovia, il gas. Fosse venuto di qua, avrebbe fatto meno morti. Di qua c’è il dopolavoro ferroviario, la centralina dell’Enel, la Croce Verde. Le viareggine – tipiche case a due piani - son più lontane. Laggiù – e ammicca di là dai binari, verso quell’ammasso di macerie fumanti e di muri anneriti ancora inaccessibili, interdetti al passo da una pietosa recinzione tempestata di fiori e di preghiere – le case sono davvero attaccate al muraglione della ferrovia. O meglio, erano. Perché le case non ci sono più, in via Ponchielli.

Vedi lì per terra? È ferro fuso. Sbrilluccica, forse è alluminio, ma che importa. Doveva essere il cerchione di una macchina, di quelle spogliate di ogni sembiante dal calore di migliaia di gradi, una vampata rapida ma micidiale. Scheletri già rugginosi appena pochi giorni dopo l’esplosione.

Un’ambulanza è ridotta ad un ammasso di ferraglia e di fibre di vetro rattrappite, che si agitano al vento come tremebonde pelli di pecora.

Le siepi di pitosforo, butterate dalla pioggia bollente, sono vaiolose, di un colore malsano, mezzo verde e mezzo giallo.

Oleandri dai fragranti fiori bianchi e rosati ora giacciono inermi, le foglie molli, affrante, color dell’ocra.

Un’unica delicata macchia rosa tra tanta desolazione. Una rosa ha miracolosamente resistito, o forse è riuscita a fiorire lo stesso, in mezzo ad un mare di morto fogliame beige.

I pini, sempreverdi che non son più tali. Fiori sui muri e pietosi rattoppi d’asfalto a cercar di cancellare la macchia di un motorino e del suo guidatore carbonizzati, investiti in pieno dal fiume di fuoco.

I treni scorrono lenti sull’unico binaro riaperto, dai cavi elettrici nuovissimi, appena tesi, di un bel rosso rame brillante. Viaggiatori dalle facce stupefatte e tristi osservano i pedoni, visitatori di questo luogo di tragedie casuali.

Mi siedo per terra, all’ombra, ad annusare quel puzzo di morte fumigante che aleggia tuttora nell’aria, a sei giorni dal dramma. Ad ascoltare quel silenzio irreale e insieme rispettoso di tutta questa gente che osserva turbata ed ammutolita. A cercar di descrivere ciò che provo. E mi viene da piangere.

Per quelle morti inutili, generate dell’incuria, figlie della fretta, nipoti del profitto senza attenzione. Per questa mia Viareggio offesa, più che una città un antico amore mai del tutto sopito. Per quegli scheletri anneriti che erano alberi, siepi, case, lampioni, vetture, gente. Per quel fornaio, scomparso sulla passerella che stanno già distruggendo, annientato da un bagliore come gli uomini ombra di Hiroshima, per quella sua vedova che non avrà nemmeno un corpo, una bara, una tomba dove piangere il marito sparito in una notte estiva, con l’efferatezza di una tragedia greca. Per quelle case bruciate, le finestre sfondate, i vetri infranti, le povere cose semiarse rimaste dentro, alle pareti ancora appeso – come spesso si trova nelle case di Viareggio – un carboncino di Inaco, che sempre ritraeva le facce dagli occhi stuporosi e stanchi di fatica manuale delle sue genti.

Un ingenuo messaggio di speranza su un lenzuolo legato ad una recinzione di pitosforo: risorgi ancor più bella. Ma oggi nell’aria non si avverte la speranza. Solo rabbia e dolore.

Prima pubblicazione : 6 luglio 2009

2 commenti:

  1. Intollerabile. Si beffa la memoria dei morti. A due anni esatti dalla tragedia, "la giustizia" italiana non ha ancora individuato le responsabilità....Saranno stati cento metri, questo racconto mi ha tanto commosso...lo conosco a memoria...
    Alex

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  2. Ciao Alex,

    grazie del tuo commento, così sentito... E' uno dei tanti scandali della in-giustizia all'italiana. Si conta sulla stanchezza, sulla disillusione, sulla progressiva perdita di energia di chi vorrebbe vedere processati e condannati i responsabili.

    Ciao, a presto,
    HP

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